Truppe schierate nella piazza di Almaty il 6 gennaio (foto Reuters).
Ventisei morti, oltre trecento feriti, circa tremila arresti: è il pesante bilancio della rivolta che è esplosa per le strade del Kazakistan, a partire dalle regioni occidentali, per raggiungere e infiammare la città di Almaty, con quasi due milioni di abitanti la più popolosa del Paese. Il Governo ha istituito lo stato di emergenza, bloccato Internet e i social network. Al fianco delle forze governative sono intervenute le truppe di un’alleanza di Paesi guidata dalla Russia di Putin. A innescare la protesta senza precedenti nell’ex Repubblica sovietica l’annuncio del rincaro del carburante: la goccia che ha fatto traboccare il vaso già colmo di un profondo, esasperato malcontento legato al trentennale regime autoritario dell’ex presidente Nursultan Nazarbayev, dimissionario nel 2019 e al quale è succeduto Kassim-Jomart Tokayev (scelto da Nazarbayev stesso). Ma il nuovo presidente di fatto non ha cambiato niente: non ha avviato le riforme politiche promesse e ha mantenuto lo status quo del precedente regime, creando una bruciante delusione nella popolazione, soprattutto nelle nuove generazioni che, anche grazie alla progressiva apertura al mondo del Kazakistan, non sono più disposte ad accettare lo stato delle cose in modo acritico.
A confermarlo è il professor Antonio Cerone, 56 anni, originario di La Spezia, che da sei anni vive con la sua famiglia in Kazakistan, dove insegna Informatica all’Università Nazarbayev della capitale Astana, un ateneo di lingua inglese, creato per formare la futura élite e classe dirigente del Paese. Buona parte del corpo docente proviene dall’estero, molti insegnanti sono italiani: «Il decano della facoltà di Medicina, vicepresidente dell’ateneo, è italiano», spiega Cerone. Al momento il docente è in Italia, in attesa di ripartire con i suoi figli - e raggiungere la moglie indonesiana, Shinta, che è già là - se le condizioni politiche in Kazakistan lo permetteranno. «Partirò verso l’aeroporto Nursultan Nazarbayev», osserva il docente, «nella città di Astana che dal 2019 si chiama Nur-Sultan e insegno nell’Università Nazarbayev…. In Kazakistan tutto è intitolato all’ex presidente, che di certo aveva una tendenza alla megalomania».
Professor Cerone, da docente universitario lei è a stretto contatto con gli studenti, i giovani kazaki. Cosa ha percepito in questi anni e soprattutto negli ultimi tempi parlando con loro?
«Nei primi anni ricordo che gli studenti non volevano parlare di politica e di attualità. E se lo facevano era per giustificare in qualche modo la situazione. Bisogna considerare che l’Università Nazarbayev è un ateneo d’élite, dove gli studenti ricevono una borsa di studio. Invece gradualmente, negli ultimi tre anni, i ragazzi hanno cominciato a parlare di politica. A me interessava capire e loro mi raccontavano cosa succedeva, gli umori della gente. Così, ho capito che la situazione stava cambiando e ho avuto la percezione che presto ci sarebbe stata un’evoluzione. Probabilmente un ambiente universitario in cui ci sono tanti docenti stranieri ha contribuito a cambiare la mentalità dei giovani. Una cosa interessante: nel 2019 Astana ha preso il nome di Nur-Sultan, ma gli studenti non vogliono nemmeno sentire questa denominazione, per loro resta Astana. La questione dell’aumento del prezzo del carburante è stata solo la miccia che ha innescato la rivoluzione».
Luci e ombre del Kazakistan, per come lo ha conosciuto lei?
«Dopo gli studi universitari a Pisa ho vissuto in diversi Paesi, prima in Germania, otto anni in Australia, poi a Macao per quasi dieci anni. Mia figlia e mio figlio, 15 e 12 anni, sono nati a Hong Kong. Ma devo dire che il Paese più strano dove sia stato è il Kazakistan. La popolazione locale è di origine turca e parla un idioma che è una variante – più complicata – del turco. Un tempo i kazaki erano nomadi divisi in tribù. Oggi conservano tradizioni molto radicate e una struttura familiare di stampo fortemente patriarcale (anche se gli uomini muoiono relativamente presto a causa dell’alcolismo e di una vita insana che include cattiva alimentazione, fumo e sedentarietà). Nelle famiglie, molto numerose, vige una rigida gerarchia sulla base dell’età: gli anziani dettano il potere e dominano sui più giovani, che sono sottomessi. I genitori decidono tutto per i figli, scelgono al posto loro cosa devono studiare, senza pensare affatto ai loro desideri e inclinazioni. Non è raro che il genitore di uno studente vada a parlare col rettore dell’università. La presenza della famiglia sui ragazzi è molto forte, pesante, in molti casi invasiva. Il tasso di suicidi tra i giovani è altissimo (un po’ come in tutti gli Stati dell’ex Urss del resto). E sono molto diffusi i casi di malattie mentali fra i ragazzi. In università abbiamo un centro di consulenza psicologica: circa il 60% degli studenti viene seguito. Uno degli psicologici mi diceva che la causa è da rintracciare nella struttura della famiglia tribale, alla quale si aggiunge il gravissimo problema dell’alcolismo che riguarda i genitori, soprattutto uomini fra i 40 e i 60 anni, ma anche le donne. In Kazakistan l’alcolismo non si vede: la gente non beve fuori, beve in casa. Non è l’alcolismo del sabato sera, ma un vizio continuativo, quotidiano, all’interno delle pareti domestiche. Di conseguenza, anche i livelli di violenza domestica sono molto elevati. E con il Covid la situazione è molto peggiorata: i casi di dichiarate violenze familiari sono tantissimi».
E la condizione femminile?
«La società è molto maschilista e le donne sono le più penalizzate: le ragazze devono sposarsi entro i vent’anni e le pressioni sociali e familiari sono fortissime. Si tratta di matrimoni spesso combinati, forzati, contro il volere della ragazza. Le giovani studiano, vanno all’università (io ho moltissime studentesse nel mio corso). Ma a patto che si sposino presto. Con la conseguenza che diventano anche madri molto presto. Oggi, per fortuna, le cose stanno progressivamente cambiando: molte ragazze si ribellano e non accettano più queste norme».
Il Kazakistan è un Paese profondamente corrotto.
«Sì, la corruzione permea tutti gli strati della società ed è generalizzata e strutturale. Io lo vedo negli studenti stessi: la tendenza a corrompere e barare comincia all’inizio della carriera scolastica e viene addirittura incentivata dagli insegnanti. È senza dubbio una conseguenza del dominio sovietico, quando per difendersi bisognava nascondersi e fare sotterfugi. Anche mia moglie, che insegna lingua inglese in una scuola semi-privata, a classi corrispondenti alle nostre medie inferiori, ha vissuto dei casi di corruzione, che è diffusissima anche nella polizia. Nelle scuole, poi, vige ancora l’idea che tutti devono essere promossi e non ci possono essere bocciature: un retaggio sovietico. Del resto, la Russia continua a essere incombente sul Kazakistan. Lo stesso Tokayev non sarebbe dov’è senza l’appoggio della Russia».
Com’è la situazione economica?
«Il Kazakistan potrebbe essere ricchissimo: dispone di risorse ingenti di gas e anche del petrolio (la maggior parte degli italiani che lavorano qui sono dipendenti dell’Eni). Ma i guadagni vanno alla famiglia di Nazarbayev e a una ristretta cerchia di potenti. Il 40% del budget statale viene investito sullo sviluppo della capitale, dove la gente vive con maggior benessere. Ad Almaty (nome che nella versione antica Alma Ata significa “nonno delle mele”) è diffusa invece molta povertà. Non a caso le rivolte sono scoppiate lì».
Lei dovrebbe ripartire per Astana il 22 gennaio…
«Sì, con i miei figli. Mia moglie è partita prima perché doveva ricominciare la scuola. Io sono rimasto perché a causa del Covid le lezioni alla mia università sono ancora tutte online. Ma qui ho avuto grandi problemi per via delle norme sul green pass. Italia e Unione Europea non riconoscono il vaccino che mi è stato somministrato in Kazakistan. E in quanto residente da tanti anni all’estero, non ho più la tessera sanitaria. Di conseguenza non posso avere il green pass. A novembre ho anche avuto il Covid in Kazakistan, ma al momento non hanno accettato la documentazione che ho presentato, tradotta in inglese. Insomma, i miei figli, che si sono vaccinati qui, hanno il green pass. Io no e non posso fare nulla. Prima potevo fare il tampone ogni 48 ore e presentare il relativo certificato. Ora con il green pass rafforzato non posso neppure andare nel bagno di un bar (come mi è successo in montagna). Una situazione molto difficile. Spero almeno di poter raggiungere l’aeroporto e ripartire».
(Foto Reuters sopra: controlli delle forze dell'ordine lungo le strade ad Almaty)