Attore un tempo popolare per aver interpretato al cinema un supereroe mascherato, Riggan Thomson paventa il viale del tramonto. Ora spera in un colpo di coda: riconquistare spettatori, critici, stima personale. In gioco c’è la sua vita. Peccato che dietro le quinte debba combattere contro troppi nemici: il produttore, la ex moglie, la nuova compagna, la figlia adolescente, il coprotagonista fin troppo bravo.
E soprattutto il suo super ego che gli si materializza davanti con il costume del suo famoso personaggio: Birdman. Un caustico “grillo parlante” con cui sarà sanguinoso fare i conti.
Commedia agrodolce, per la verità più amara che tenera, Birdman del regista messicano Alejandro González Iñárritu è la pellicola che ha strappato applausi all’ultima Mostra di Venezia. Ha appena vinto due Golden Globe e, la notte di domenica 22 febbraio, con ogni probabilità permetterà finalmente a Michael Keaton di stringere in pugno l’Oscar come miglior attore protagonista. Premio meritatissimo
per un interprete che ha inanellato una quarantina di film, ma che viene ricordato solo per i successi girati con il visionario Tim Burton: Beetlejuice e poi, tra gli anni ’80 e ’90, due Batman, i primi di una fortunata serie.
Ed è proprio questo passato in comune con il personaggio che rende sfiziosa la prova di Keaton. È come se l’attore si mettesse a nudo, perché quello sullo schermo non può che essere lui.
«Neanche per sogno! Non somiglio a questo attore in pieno crollo emotivo», protesta Michael Keaton, 63 anni. «L’unica cosa che abbiamo in comune è che anche io ho avuto un successo planetario nei panni di un supereroe mascherato. Ma sono passati 25 anni da quel Batman».
Eppure, la cronaca è costellata di amari esempi di come una fama eccessiva e subitanea possa segnare la vita delle persone…
«Ogni vicenda personale fa storia a sé. Bisogna stare attenti a non generalizzare. , Tutti abbiamo un Birdman sulle spalle, il nostro ego che ci insegue, il nostro fantasma. L’importante, quando uno poi sale in macchina, è di farlo accomodare dietro».
È proprio ciò che invece non riesce a Riggan che, per non ruzzolare sul viale del tramonto, scommette contro le sue paure, i critici e i finti amici decidendo di portare in scena, a Broadway, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore di Carver. Una sfida che l’acida
critica teatrale del Times dà per persa in partenza. E che invece si risolverà in modo inaspettato, così come sottintende il titolo completo del film di Iñárritu: Birdman (o l’imprevedibile virtù dell’ignoranza). Grazie al virtuosismo di piani-sequenza che non staccano mai passando da un personaggio all’altro, da una situazione all’altra, lungo il dedalo di corridoi e camerini dietro le quinte, lo spettatore spia
i giorni delle prove. La defezione, non casuale, del comprimario. L’arrivo del sostituto (Edward Norton, anche per lui nomination all’Oscar) fin troppo bravo e famoso. Le fibrillazioni tra i protagonisti, a causa di sentimenti intrecciati. Più la scheggia impazzita rappresentata da Sam, figlia ventiseienne di Riggan, assistente del padre per starsene alla larga dalle droghe, giovane donna sensibile ma capace
di feroci rancori (pezzo di bravura di Emma Stone, pure lei candidata all’Oscar). Un cocktail che diventa esplosivo per le croniche insicurezze di Riggan, che rivuole il successo per sentirsi di nuovo vivo e amato, ma che si porta sulle spalle un alter ego distruttivo.
Birdman è una black-comedy sulle fisime degli attori, su Hollywood e sul teatro. Condita con una colonna sonora straniante, fatta di assoli di batteria martellanti. E con battute al vetriolo che colpiscono veri nomi dello star-system. Più considerazioni taglienti sulla fama, i critici, i social network e tutto ciò che contribuisce a innalzare e poi seppellire l’ego di un artista. Un gran bel film sulle illusioni del successo e sui pericoli esistenziali.
Il regista Iñárritu affronta spesso il tema della morte…
«Non so dire se l’aldilà esiste. Credo però che qualcos’altro ci sia. A essere sincero, ho un’idea di Dio come qualcosa di grande. Non importa come si chiami. Io credo, ma ciò non significa che ci sia una vita dopo la morte».
Mettiamo che vinca l’Oscar. A chi dedicherà la statuetta?
«Ai miei genitori cattolici, proprio come ho fatto ai Golden Globe. Non ricordo un momento in cui mio padre, ingegnere edile, non abbia fatto due lavori e mia madre, casalinga, non abbia recitato il rosario o non sia andata a Messa malgrado i sette figli e i lavori da fare in una fattoria. Nella nostra famiglia, i valori erano semplici: lavorare sodo, non gettare la spugna, rispettare ed essere grati a Dio. Senza
lamentarsi mai. Anzi, condendo tutto con un pizzico di umorismo».