David du Ciel Mukendi, giornalista congolese, 38 anni.
La situazione nella Provincia del Nord-Kivu nella Repubblica Democratica del Congo (un quinto dell'estensione dell'Italia, con più di 6 milioni di abitanti), teatro dell'assassinio dell'ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell'autista Mustapha Milambo, continua ad essere tesa. Abbiamo sentito a questo proposito David du Ciel Mukendi, 38 anni, giornalista congolese e direttore di Pole FM, radio comunitaria, “voce di chi non ha voce”, emanazione del Pole Institute, un istituto di ricerca e d'azione specializzato nella prevenzione e nella risoluzione dei conflitti che ha sede a Goma e che estende le sue attività in tutta la parte orientale del Congo-Kinshasa, in Ruanda e in Burundi.
Come giudica la situazione sociale e di sicurezza nel Nord Kivu, in particolare nella città di Goma e nei suoi dintorni?
«La situazione è molto preoccupante, anche ieri abbiamo denunciato l'omicidio di due giovani. I netturbini usciti la mattina, hanno trovato due corpi abbandonati per strada con le mani legate dietro la schiena. Questo all'indomani dell'attentato che purtroppo è costato la vita al magistrato militare William Assani, a Rutshuru. La gente vive in luogo dove circolano liberamente le armi, dove la criminalità organizzata ha preso piede e messo radici. Il Nord Kivu è quasi un paradiso naturale, ma in cui purtroppo vivono uomini senza fede né legge. Le persone sono così stanche della situazione che hanno imparato a farsi giustizia da sé. Un ladro catturato, un presunto assassino che cade nelle mani degli abitanti, viene subito linciato se la polizia non arriva presto, "siccome la giustizia rischia di liberare questa persona, ci facciamo noi stessi giustizia". È deplorevole segnalare che tra agosto 2020 e febbraio 2021 ci sono stati 15 cambiavalute assassinati per le strade di Goma, è un numero enorme in una piccola città, e senza contare quelli che vengono uccisi in altri territori».
Pensa che l'uccisione dell'ambasciatore italiano sia legata alla criminalità locale o c'era una strategia in questo atto criminale?
«Coloro che hanno attaccato il convoglio del Programma alimentare mondiale, in cui si trovava l'ambasciatore italiano, erano attratti dai "bianchi". Va ricordato che nel maggio 2018 due turisti britannici e i loro autisti congolesi sono stati rapiti da uomini armati nella stessa zona. Ma ora è necessario sapere come gli assalitori hanno ottenuto le informazioni che c'erano degli europei in quel convoglio: è una domanda a cui dovranno rispondere gli inquirenti. La zona è fuori controllo e persino i miliziani travestiti da contadini possono essere informatori degli aggressori. Che si tratti di informazioni condivise con i rapitori o dei riscatti loro pagati prima che le persone rapite vengano rilasciate, di solito tutto passa attraverso gli operatori di telefonia mobile. Questo avrebbe dovuto essere facile da rintracciare perché la tecnologia si è evoluta, ma è evidente l'incapacità delle autorità ad agire, e questo anche molto prima dell'attacco che è costato la vita all'ambasciatore italiano, alla sua guardia del corpo e all'autista congolese. Il caso dell'ambasciatore fa parte di questa criminalità organizzata che ha preso piede nel Nord Kivu e che recentemente fa notizia perché ogni settimana si verificano attacchi e rapimenti simili».
Ci sono collegamenti con la morte del magistrato Assani William?
«Non posso affermare che l'assassinio del magistrato abbia un legame con quello dell'ambasciatore, spetta agli inquirenti dimostrarlo. Ma quello che colpisce di quanto accaduto al magistrato è il fatto che chi lo ha aggredito ha avuto il coraggio di sfidare anche il militare sua guardia del corpo. Lascio agli investigatori il compito di rispondere a questa domanda, non voglio speculare».
Quale soluzione si può ipotizzare a questa situazione di totale insicurezza?
«Penso a una soluzione prima politica e poi militare. La soluzione politica è richiesta per il fatto che ci sono reti conniventi, legate ad attori politici ed economici nella provincia del Nord Kivu e altrove, che beneficiano di questa situazione. Ci sono miliziani delle FDLR che controllano intere città, territori e villaggi. Come possono dire al mondo che sono lontani dall'area in cui è avvenuto l'attacco? Questo è un modo per dire che sono concorrenti del governo quando si tratta dell'amministrazione della città. Basta ripercorrere il flusso dei fondi pagati per la liberazione degli ostaggi tramite il "Mobile Money" per avere risposte a diversi interrogativi posti dalle indagini. La polizia e i servizi di intelligence devono essere meglio formati e attrezzati per rintracciare i beneficiari di questi crimini o gli autori diretti. Questo è possibile solo se c'è una reale volontà politica a Kinshasa e anche la volontà delle popolazioni di collaborare con i servizi di sicurezza. Perché anche gli ostaggi rilasciati spesso sono omertosi per paura di essere uccisi se rivelano ciò che hanno visto o sentito. Sempre in questa soluzione politica, l'apparato di sicurezza del Nord e del Sud Kivu dovrebbe essere affidato ad attori che non hanno vicinanza tribale, etnica o familiare agli abitanti di questa regione. Dal punto di vista militare invece, ci sono zone nel Nord Kivu dove i miliziani congolesi e FDLR (le Forze Democratiche per la liberazione del Ruanda) hanno stabilito il loro quartier generale; in alcuni punti sfruttano i minerali e li commerciano con l'appoggio della popolazione. L'esercito nazionale dovrebbe preparare segretamente delle vere e proprie operazioni su larga scala e colpirle con l'obiettivo di annientarle una volta per tutte. Se queste operazioni potranno avere il sostegno di un paese amico, il popolo congolese dovrà sostenerlo».
Cosa stanno facendo davanti a questa realtà le autorità congolesi?
«Non si può dire che lo Stato non faccia nulla, ma è spesso all'interno dei servizi di sicurezza che emergono le difficoltà dallo Stato, come anche per il comportamento di alcune popolazioni che preferiscono sostenere come informatori i miliziani invece di aiutare l'esercito nazionale. Lo Stato, attraverso l'esercito, lancia operazioni per dare la caccia ai miliziani, ma gli sforzi spesso non sono consolidati dai politici. Ciò è evidente ad esempio quando un soldato rimane in una zona di combattimento per più di un anno senza essere sostituito o dispiegato altrove».
Quale invece il ruolo della comunità internazionale?
«La comunità internazionale non aveva fatto sentire la sua voce quando molti congolesi sono stati uccisi per diversi mesi su questo asse. In particolare, quando sono stati massacrati i guardiani del parco dell'ICCN (Istituto Congolese per la Conservazione della Natura). Posso capire che l'attenzione sia aumentata quando la vittima è stata il rappresentante di un paese amico. L'azione della comunità internazionale attraverso la Monusco è insufficiente. Ad esempio, gli uomini che dovevano recuperare il corpo dell'ambasciatore potevano benissimo inseguire i miliziani; ma sono arrivati troppo tardi e sicuramente con l'ordine di non combattere. È stata questa letargia che ha portato al genocidio in Ruanda nel 1994. Le unità di intervento rapido delle Fardc (l'esercito congolese) in collaborazione con la forza Monusco avevano messo in rotta le milizie M23 (altro gruppo armato) in breve tempo. Non conosco milizie che possano avere una capacità di nuocere come quella dell'M23. È evidente oggi la questione della lentezza d'azione della MONUSCO dopo la sconfitta degli M23. L'Occidente può aiutare schierando forze al di fuori della Monusco per operazioni volte a rintracciare i gruppi armati e a neutralizzarli».