Kabul cadrà, Kabul sta per cadere. Non si tratta più di settimane, ma probabilmente di giorni . I talebani stanno riconquistando l’Afghanistan dopo che la Nato, i primi di luglio ha abbandonato il Paese. «Missione compiuta», aveva detto il presidente americano Joe Biden. Aggiungendo che, con l’uccisione di Bin Laden e lo smantellamento di al qaeda, spettava agli afghani decidere del destino del proprio Paese. Certo, le truppe americane sono rimaste nelle vicinanze e Washington ha inviato altre migliaia di soldati per garantire il rientro in sicurezza dei cittadini americani (per gli italiani la Farnesina ha organizzato un ponte aereo per la sera di ferragosto per far rientrare i connazionali). Ma a poco sono serviti i bombardamenti aerei che dovevano rallentare l’avanzata dei talebani. In poche settimane sembra spazzato via il lavoro di venti anni. Contando sulla pazienza e sulla paura, sulle zone rurali mai veramente coinvolte nel processo di sviluppo, i talebani avanzano mentre il mondo resta a guardare.
La diplomazia si muove in ritardo, mentre ci si chiede quale sia stato l’obiettivo reale delle quattro missioni che si sono susseguite negli anni: la International Security Assistance Force (ISAF), la prima, condotta, dal 20 dicembre 2001 al 31 dicembre 2014, e la Resolute Support Mission (RSM), dal 1° gennaio 2015 al 31 agosto 2021, decise da risoluzioni del Consiglio di sicurezza Onu, avrebbero dovuto spegnere l’insurrezione talebana, stabilizzare il Paese e contribuire a uno sviluppo socio economico in grado di mettere il governo afghano in grado di esercitare a pieno la propria sovranità. Le altre due operazioni a guida Usa, invece, (Enduring Freedom, dal 7 ottobre 2001 al 28 dicembre 2014, e Freedom’s Sentinel, dal 29 dicembre 2014 al luglio 2021), erano finalizzate esclusivamente a combattere il terrorismo.
Troppo poca considerazione, probabilmente, c’è stata però nei confronti della popolazione, decisiva in caso di nuova avanzata dei talebani. Senza contare che il ritiro è avvenuto senza una reale exit strategy che avrebbe consentito di valutare, e calibrare, le risorse e le strutture necessarie perché il governo afghano potesse continuare a mantenere il controllo, non solo militare, del Paese.
In questi giorni e in queste ore molti analisti stanno paragonando l’Afghanistan alla caduta di Saigon del 1975 e si preparano a commentare l’instabilità che, appena i talebani saranno pienamente al potere, si allargherà in tutta la regione. Si prevedono ondate di profughi verso l’occidente, il ritorno indietro su molti diritti civili (a cominciare dall’istruzione delle bambine), migliaia di morti civili, una forte ripresa del traffico di oppio (l’Afghanistan è il primo Paese produttore al mondo) e una nuova riorganizzazione del terrorismo.
E allora, riascoltando le parole di Biden e pensando ai 2.312 morti americani (19.650 i feriti), ai 53 soldati italiani che hanno perso lì la vita, ai duemila miliardi di dollari spesi in questi anni e all’avanzata senza resistenza dei talebani, mentre il presidente Ghani cerca inutilmente di rimobilitare l’esercito regolare viene da chiedere al primo cittadino della Casa Bianca: «Presidente, ma davvero considera la missione compiuta?».