Distretto di Byumba, Ruanda
È strana questa capitale africana. Per chi c’è stato durante il genocidio, per quante volte ci si ritorni, permane quel senso di disorientamento nel vedere oggi una grande città di un milione e mezzo di abitanti, con traffico intenso, strade perfette (almeno le arterie principali), negozi, discoteche, pub, alberghi che aprono in continuazione, mentre i ricordi richiamano una Kigali spettrale, percorsa dalle bande di miliziani (chiamati interahamwe) e di soldataglia che dava la caccia ai tutsi.
Tornano alla mente i massacri, la violenza inaudita che questa città ha visto compiersi in non più di 100 giorni: un milione di morti, in gran parte dell’etnia tutsi, e molti di coloro – anche dell’altra etnia, gli hutu – che non aveva accettato la logica dell’essere vittima o carnefice, senza via di scampo.
Allora gli abitanti di Kigali non superavano il mezzo milione. Il memoriale del genocidio, sorto da pochi anni in città, ospita i corpi di 270 mila vittime, raccolti nella capitale e nelle vicinanze. Una mattanza che non ha eguali nella storia del Novecento, per rapidità e quantità: in quei cento giorni venivano uccise mediamente 7 persone al minuto. In Ruanda oggi non c’è una famiglia che non pianga almeno qualche partente ucciso, o viceversa qualcuno finito in carcere.
Il piccolo Paese africano si sta risollevando con sulle spalle il gioco di questo tragico avvenimento, che ha segnato un prima e un dopo nella storia del Paese. La sua economia cresce, ma è fragile: quasi il 70% del Pil è frutto di aiuti internazionali.
Il Governo vuole investimenti, più che aiuti, ma non può fare a meno del sostegno delle agenzie umanitarie, delle missioni, delle Ong, perché la povertà estrema è ancora tanta. Riguarda più di metà della popolazione.
Quanto allo stato di salute della democrazia, non è proprio in ottime condizioni: le recenti elezioni hanno vistodi nuovo vincitore il presidente uscente Paul Kagame, col 93% dei consensi. Troppi per un Paese libero. Troppi per un Paese che nei mesi precedenti il voto ha assistito alle pesanti pressioni sull’informazione, all’arresto di candidati politici dell’opposizione, allo scoppio di diverse bombe nella capitale, ad alcuni inquietanti omicidi eccellenti.
Sul piano dello sviluppo, tuttavia, il Governo vuole far vedere che il Ruanda ce la fa. A tutti i costi, anche nascondendo “sotto il tappeto” quello che non va. Ad esempio, la povertà delle zone rurali, quelle tradizionalmente più arretrate nelle zone più remote del “Paese delle mille colline”, o le sacche di miseria che sussistono anche nei quartieri poveri della capitale Kigali o della città universitaria di Butare.
Ma lo vuol far vedere con il suo programma d’interventi, massiccio e su tutti i fronti: dal sistema sanitario alla diffusione dell’energia elettrica e dell’acqua potabile, dal sistema stradale, all’impetuosa informatizzazione, dalla scolarizzazione massiccia agli investimenti in infrastrutture produttive.
Kigali, Ruanda
«La povertà c’è, ed è molta. Qui a Kigali, città ormai di un milione e mezzo di abitanti, è meno visibile. Le mille luci della capitale ingannano, ma se esci dal Centro, appena qui dietro c’è un quartiere che dieci anni fa contava 3 mila abitanti, oggi ne ha 30 mila, ed è tutta gente molto povera. Le case le fanno ancora coi mattoni di fango. Sulle colline poi, è peggio, si soffre ancora la fame».
Padre Frans Vandecandelaere, belga, è missionario in Africa da 40 anni, dei quali una quindicina passati in Ruanda. Per avere il termometro della situazione sulla povertà e sui giovani occorre andare dai salesiani. È così anche in questo piccolo Paese africano. I “preti di don Bosco” – come li chiamano anche qui – nella capitale Kigali sono presenti con due grosse realtà: Gatenga – di cui padre Frans è direttore – un grosso centro che, fra le mille cose di cui si occupa, punta soprattutto sulle attività più caratteristiche dei salesiani, cioè scolarizzazione di bambini e giovani, preparazione professionale, alfabetizzazione, orientamento al lavoro (in collaborazione con l’Ong di Bologna Amici dei Popoli).
«Abbiamo oltre 700 studenti», aggiunge il missionario, «150 dei quali in internato. Facciamo scuola professionale su due livelli, corsi biennali e triennali. I nostri studenti provengono quasi tutti dal ceto sociale più povero. Una nostra indagine ci ha permesso di appurare che il 95% di loro non ha alle spalle una famiglia, nel senso tradizionale del termine. Ci sono orfani, ragazzi che hanno uno solo dei genitori, altri che vivono con i fratelli o parenti più lontani. La stragrande maggioranza delle situazioni di povertà è dovuta alle conseguenze del genocidio».
Anche in Ruanda colpisce la precarizzazione del lavoro. Non si assume più a tempo indeterminato, e nemmeno per lunghi periodi: «Tutti contratti brevi», spiega il salesiano. «Due mesi, tre, massimo sei. Il problema del lavoro è in testa alle priorità».
Il Ruanda era uscito azzerato dalla guerra civile del 1994. Il tentato genocidio dei tutsi e degli hutu moderati aveva provocato un milione di vittime e la devastazione dell’intero Paese. Padre Danko Litric, confratello salesiano di origine croata, quei terribili momenti li ha vissuti in prima persona. Ha assistito impotente al massacro di oltre mille persona nella chiesa di cui allora era parroco, nella missione di Musha. E i miliziani estremisti hutu avevano già deciso di eliminare anche lui, scomodo testimone. Era stato salvato all’ultimo minuto da un commando di militari belgi.
«Il Paese è ripartito da zero», dice. «Negli anni Ottanta quasi tutti andavano ancora in giro senza scarpe. Oggi è cambiato tutto. Poi, in questi 16 anni, seguiti al genocidio, si sono fatti enormi passi avanti in alcuni ambiti, come nella sanità, nell’accesso all’energia elettrica e all’acqua, nelle infrastrutture e nelle strade. Ma non nella lotta alla povertà. Gli ultimi provvedimenti, poi, quali il divieto di vendere carbone da legno, di coltivare nei fondo valle, o l’imposizione delle colture a seconda delle zone del Paese, potrà portare benefici in futuro, ma al momento ha impoverito ulteriormente le fasce più vulnerabili della popolazione. Non esagero se dico che il 60 per cento dei ruandesi vive ancora sotto la soglia di povertà».
Padre Danko oggi è l’economo provinciale dei salesiani, e gestisce anche l’altro enorme complesso scolastico della congregazione a Kigali, l’Ifak, Istituto di formazione apostolica di Kimihurura. Vi è ospitata una scuola primaria con 800 bambini e una secondaria con altri 600 giovani. Il missionario croato sottolinea che lo sviluppo tumultuoso di questi ultimi anni è stato tutt’altro che omogeneo: «È cresciuta la distanza fra ricchi e poveri, come pure fra le condizioni di vita in città e nelle colline».
Padre Danko non dimentica un’altra delle “ferite aperte” del Ruanda: le prigioni, ancora affollate dai responsabili del genocidio. «Due volte al mese vado a visitare i carcerati di una delle due prigioni di Kigali», spiega. «Più della metà dei detenuti sono reclusi per reati legati al genocidio. Sono molti quelli che si confessano per aver ucciso o per aver istigato a uccidere. C’è anche chi confessa di aver accusato qualcuno ingiustamente, mentendo. In carcere mi è capitato di trovare anche qualcuno dei miei ex catechisti», aggiunge triste. Alcuni di loro in seguito sono stati rilasciati, perché hanno dimostrato la loro innocenza. Ma altri, purtroppo, sono stati condannati per partecipazione ai massacri».
«In ogni caso», conclude, «negli anni mi sono convinto di una cosa: il genocidio non è stato voluto dalla gente. È stato voluto e pianificato dai capi, politici e militari. Ma tante persone comuni non hanno saputo sottrarsi al conivolgimento».
Kigali, Ruanda
Le donne, nel Parlamento ruandese, sono oltre il 56 per cento. La percentuale più alta del mondo. Per molti versi, la politica e l’economia ruandese sono “al femminile”.
All’inizio, subito dopo il genocidio, la crescente intraprendenza femminile è stata una sorta di necessità: erano stati uccisi molti più uomini che donne, durante la guerra civile, e il Paese quindi aveva un forte squilibrio quantitativo tra i due generi. Ma di questo il Ruanda ha fatto di necessità virtù: oggi la donna ruandese ha una forte capacità di inserimento nel mondo del lavoro e un’accentuata intraprendenza.
Un esempio? Amizero. Una rete di cooperative di lavoro – e non solo – fatta tutta di donne e sparsa per tutto il Paese. Amizero significa speranza, in lingua kinyaruanda, e la storia di queste lavoratrici è emblematica: «Amizero è nata prima del genocidio del 1994», dice Winnie Mukamugenga, coordinatrice dell’associazione. «Durante i massacri tre quarti delle donne che ne facevano parte sono state uccise. Ritornata la pace abbiamo deciso di ricominciare. Oggi, siamo 44. Non siamo solo una cooperativa di lavoro. Facciamo anche attività di prevenzione contro l’Aids e sostegno alimentare per i bambini che ne hanno bisogno».
Le donne di Amizero fanno lavori diversi, prevalentemente in agricoltura. Ma non tutti. Ad esempio, uno dei gruppi di Kigali, chiamato Rugenge, si occupa di riciclaggio di rifiuti. Il loro lavoro è in discarica. Vanno tra le montagne di spazzatura di Kigali, raccolgono materiale bucce di banana, scarti legnosi, vegetali. Poi, conferiscono tutto ciò che hanno messo insieme nel piccolo stabilimento, dove avviene il processo di essiccazione e di produzione di una sorta di polpette combustibili, attraverso alcuni semplici macchinari.
La giusta miscelazione dei componenti per ottenere un buon combustibile vegetale è stata studiata da Ingegneri senza frontiere-Belgio, che hanno offerto la loro assistenza tecnica. Gli altri forti sostegni alla cooperativa delle donne ruandesi sono italiani: un primo aiuto viene dalla Comunità di Sant’Egidio, che ha fornito alcuni giochi e strutture e fa sostegno a distanza per molti dei piccoli.
Una seconda collaborazione è quella di Amici dei Popoli, Ong bolognese, storica presenza di cooperazione in Ruanda fin dal 1978. Le lavoratrici avevano un grosso problema. Molte di loro avevano bambini che non sapevano a chi lasciare: la discarica non è esattamente un luogo salubre. Così, insieme all’organismo non governativo italiano è stata ideata la Garderie, cioè un asilo-doposcuola dove i più piccoli stanno durante il giorno, accuditi da tre “maman”, una insegnante e una volontaria della Ong, e i più grandi si recano dopo aver frequentato la scuola.
«All’inizio andavano in discarica con i piccoli sulla schiena», racconta Eleonora Sceusa, cooperante a Kigali di Amici dei Popoli. «Finalmente, nel 2005 siamo riusciti a realizzare la Garderie. Ogni giorno è frequentata da 150 bambini, di cui un centinaio in età prescolare e una cinquantina più grandicelli. Ora l’asilo-doposcuola accoglie anche bambini che non sono figli delle lavoratrici della discarica, ma anche altri, provenienti in prevalenza da famiglie povere».
A breve l’associazione farà un altro passo importante: sta per partire la costruzione del centro polifunzionale, che diverrà sede dell’associazione, centro per le diverse attività e riunioni, e sede più grande e moderna della Garderie.
Kigali, Ruanda
La strada per Byumba, in direzione Nord rispetto alla capitale Kigali, è asfaltata e in ottimo stato. Ma quello che scorre dal finestrino è l’altro Ruanda, quello delle mille splendide colline del Ruanda, ma anche quello più povero, dove spesso i servizi essenziali – luce, acqua, infrastrutture – hanno ancora i verbi al futuro. È qui che operano i cooperanti di Movimento Lotta contro la Fame nel Mondo (Mlfm), una organizzazione non governativa di Lodi.
«Siamo tutti ingegneri», spiega Edoardo Chiappa, uno dei cinque espatriati della Ong presenti in Ruanda. «Siamo specializzati in progetti e interventi tecnici. Stiamo realizzando tre acquedotti, qui nel Nord del Ruanda. Due sono vecchi acquedotti da ammodernare e rimettere in funzione. Il terzo è nuovo».
Ci stanno portando a vedere quest’ultimo, ormai quasi finito. «Mancano poche settimane», aggiunge Edoardo. «Poi l’impianto sarà in funzione e cominceremo la parte della distribuzione. Questo punto d’acqua dovrà rifornire un bacino d’utenza di 30 mila persone.
Un lavoro semplice dal punto di vista ingegneristico, complesso per l’adattamento alle tecnologie disponibili nel luogo e per farne un’opera che duri nel tempo con pochissima manutenzione.
«Ci si apre il cuore quando vediamo la prima acqua che sgorga dalle fonti e la gente del villaggio che corre con le taniche», sottolinea Stefano Scotti, un altro dei cooperanti di Mlfm. «Di solito la prima reazione è la sorpresa e l’incredulità».
L’acqua potabile è una delle grandi emergenze dei Paesi poveri. A causa delle patologie legate all’uso di acqua impura muoiono ogni anno 1,2 milioni di persone. Ancora nel 1990 quasi la metà della dell’Africa sub sahariana non aveva accesso all’acqua potabile. Il settimo Obiettivo del Millennio intende dimezzare la percentuale entro il 2015, portandola al 24,5 per cento.
In Ruanda, ancora nel 2006 solo il 64 per cento della popolazione aveva l’acqua in casa, o almeno un pozzo nelle vicinanze. Il governo ruandese si è posto l’obiettivo di portare la percentuale all’86 per cento entro il 2012, con un punto d’acqua a non più di 250 metri in città e a 500 metri nelle aree rurali. «Oggi, a livello nazionale la distanza media di accesso all’acqua è di 700 metri. Il problema è che il 60 per cento delle fonti è obsoleto o inagibile», spiega Edoardo.
Tuttavia, non basta portare l’acqua. Occorre anche educare al buon uso. Perciò il progetto degli acquedotti viene portato avanti dall’Mlfm insieme a un’altra Ong italiana, l’Avsi (Associazione Volontari per la Solidarietà Internazionale) che cura la parte dell’informazione, della sensibilizzazione all’uso dell’acqua potabile e del monitoraggio delle situazioni a rischio, attraverso l’installazione capillare di computer e database in tutti i centri sanitari e gli ambulatori per registrare la casistica di malattie legate all’acqua.
«Possiamo così intervenire dove vediamo che ci sono picchi di patologie e problemi sanitari derivanti dall’utilizzo di acqua impura o da carenza di servizi igienici», spiega Riccardo Bevilacqua, capo progetto di Avsi in Ruanda.
«In generale, occorre insegnare tutta la serie di accorgimenti igienici e attenzioni per usarla bene, specie con i bambini», aggiunge. «Perciò formiamo gli animatori di comunità che girano poi di villaggio in villaggio per fare quest’opera di sensibilizzazione».
Avsi, in Ruanda è presente da molti anni e porta avanti diversi progetti. Oltre a questo, fa riforestazione, costruzione di case per le famiglie più vulnerabili, corsi di alfabetizzazione. E una forte azione di sostegno a distanza: attualmente 2.300 bambini.
Kigali, Ruanda
«Abbiamo fatto progressi, ma l’Obiettivo di dimezzare la povertà entro il 2015 probabilmente non lo raggiungeremo. Ma diversi altri sì. Specie quelli relativi alla scolarizzazione e alla sanità». Le parole sono di Adolphe Bazatoha Shyaka, deputato del Parlamento ruandese. Ha studiato medicina veterinaria in Italia e oggi è membro della Commissione Agricoltura e Ambiente.
Il parlamentare non nasconde i nodi critici: la povertà ancora diffusa (il 60 per cento della popolazione ruandese vive con meno di un euro al giorno) e l’incremento demografico elevatissimo, uno dei più alti del mondo: 5,5 figli per donna, troppo per un Paese che da sempre lotta con un’agricoltura di sussistenza povera e resa difficile dall’orografia del paese, tutto colline e fondi valle paludosi.
«Ma in alcuni ambiti abbiamo ottenuto risultati insperati», aggiunge. «Oggi il 97 per cento dei bambini ruandesi va a scuola. In cifre assolute siamo passati, in soli sei anni – dal 2003 al 2009 – da 1,6 milioni di bambini alla scuola primaria, ai 2,2 del 2009. Nella scuola superiore abbiamo addirittura più che raddoppiato: siamo passati da 179 mila studenti ai 346 mila dell’anno scorso».
Anche nell’ambito sanitario probabilmente il Ruanda raggiungerà gli Obiettivi del Millennio. Riguardo all’Aids, il livello di contagio è passato dal 10 al 2,5 per cento. «I centri sanitari di prevenzione, viceversa, sono cresciuti a dismisura: da 11 nel 2001 a 365 nel 2009», aggiunge il deputato. «Oggi 76 mila sieropositivi ricevono regolarmente i farmaci retrovirali; sette anni fa erano poco più di 4 mila».
Sempre in base ai dati del Governo ruandese, le donne con gravidanza assistita sono passate dal 16% del 1992 al 66,2% attuale. La mortalità neonatale, che allora era dell’80 per mille, è scesa al 62; quella infantile entro i 5 anni dal 151% al 103%.
«Sull’agricoltura si sta investendo molto», conclude. «Attraverso studi agronomici e climatici stiamo cercando di pianificare le produzioni per zone del Paese, in modo da realizzare le colture più indicate e produttive. E presto riusciremo a distribuire sementi selezionate e concimi, in modo da incrementare la produzione. Già oggi, comunque, il Ruanda in linea di massima copre il fabbisogno interno. Per la prima volta quest’anno abbiamo venduto mais al Programma alimentare mondiale dell’Onu, perché ne avevamo prodotto in eccedenza».
Il nostro viaggio attraverso questa pezzo dell’Africa orientale si conclude. Abbiamo cercato di raccontare esperienze, situazioni, iniziative incontrate in Kenya, Uganda e Ruanda. Luci e ombre.
Ancora molte, troppe realtà di povertà estrema, che sembrano rendere irraggiungibili quegli obiettivi che i Paesi Onu si s ono dati fin dal 2000. Ma anche storie e progetti positivi, in qualche caso dati confortanti. Soprattutto, un grande dinamismo della società civile africana. Questo innanzitutto abbiamo visto.
Questi tre Paesi sono tuttavia un angolo d’Africa, significativo ed emblematico, ma non basta forse a dare un quadro della situazione complessiva. Qual è allora lo situazione generale dell’Africa sub sahariana, la parte più povera del pianeta?
Ecco i dati aggiornati della Campagna Onu per gli Obiettivi del Millennio, che forniscono un’istantanea efficace della situazione a cinque anni dalla meta, il fatidico 2015.
Il punto sugli Obiettivi del Millennio in Africa
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2000
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2008
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Ob. 2015
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Obiettivo 1 – Dimezzare l’estrema povertà - Riduzione % di affamati
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30%
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26%*
|
15,5%
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Obiettivo 2 - Assicurare l'istruzione primaria universale
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58%
|
76%
|
100%
|
Obiettivo 3 - Promuovere la parità di genere tra uomo e donna
|
85%
|
91%
|
100%
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Obiettivo 4 - Ridurre di 2/3 la mortalità infantile sotto i 5 anni
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18%**
|
14,4%
|
6,1%
|
Obiettivo 5 - Ridurre di 3/4 la percentuale di mortalità materna
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0,9%**
|
0,9
|
0,23%
|
Obiettivo 6 N° di persone con HIV che ricevono cure adeguate
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14%*
|
43%
|
100%
|
Obiettivo 7 - Dimezzare la % di persone che non hanno acqua potabile
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51%**
|
40%
|
24,5%
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* dato del 2005
** dato del 1990