Primo Giorno, Gode
Dopo un viaggio lungo più di un
giorno, estenuati da una corsa in pulmino sotto il sole, siamo
finalmente arrivati a Shashemene. Ad accoglierci un gruppo sorridente
e disponibile di tre suore cappuccine e le loro aspiranti e con un
buonissimo ciambellone accompagnato da una tazza di thè.
Il villaggio che ospita una delle
missioni gestite da Padre Bernardo è situato in una vallata
circondata da colline coltivate. Qui si trova una piccola cappellina
dove, appena arrivati, abbiamo trovato ad accoglierci un inaspettato
coro di bambini locali. Dopo i primi, intensissimi, sguardi e sorrisi
siamo entrati nella missione.
All’interno di un grande tendone
verde scuro Padre Bernardo, dopo averci fatto assistere alla
preghiera della piccola comunità, i cui membri hanno cantato il
Padre Nostro in oromo, ha assegnato a ogni coppia di noi scout un
bambino o ragazzo etiope.
Scopo: insegnare loro a scrivere le
prime parole dell’ “Abbaa Keenya” (Padre Nostro). Tra quelli
che riuscivano a maneggiare agilmente una penna nera, e i bambini
che, al contrario, avevano una certa difficoltà a distinguere le
lettere, siamo riusciti tutti (o quasi…) a fare in modo che i
nostri piccoli allievi superassero l’arduo esame di Padre Bernardo.
Sicuramente, però, il momento più
toccante della nostra mattinata è avvenuto dopo la premiazione (la
consegna dei quaderni agli allievi meritevoli) e un momento di danze
e giochi: siamo stati divisi in cinque gruppi ognuno dei quali ha
avuto il privilegio di pranzare nella capanna di una famiglia locale.
Le capanne in cui siamo stati
accolti, nella maniera più calorosa che personalmente abbia mai
ricevuto, sono circolari, fatte in fango e legna. Il tetto è
costruito con dei lunghi filari di paglia intrecciata; per isolarle
dal freddo sono senza finestre e, quindi, non molta luce riesce ad
entrare. Per costruirle, ci è stato detto, ci vogliono circa due
mesi.
Al loro interno l’intera famiglia,
nella maggior parte dei casi, ci ha accolto con il “piatto della
festa”: un calice di legno intarsiato che viene regalato alla
coppia che si sposa. Dentro di esso si cucina un piatto tipico dalla
consistenza tipica della polenta ma dal sapore… … indescrivibile.
Anche noi abbiamo provato a
rispondere alla cortesia di un’accoglienza così enormemente
generosa, per quanto essenziale, con dei piccoli doni. Alcuni di noi
sono stati salutati con un altro canto, altri ancora hanno fatto foto
alla famiglia che li ha accolti, e alla loro casa… ma ciò che più
ci ha colpiti è stato lo sguardo, incapace di dire altro se non:
sono contento che tu sia qui.
Dai loro gesti, dalle loro stentate
parole in un incerto inglese si capiva chiaramente quanto la nostra
presenza fosse un onore immenso che regalavamo alla loro umile
dimora. Alcuni di noi si sono sentiti persino a disagio quando, prima
di servirci il pasto, ci hanno lavato le mani con una brocca d’acqua.
Dopo aver assaporato questi nuovi
gusti, e questa nuova cortesia, abbiamo raggiunto nuovamente la
missione dove, dopo tanti saluti e una quantità innumerevole di
foto, ci siamo dovuti salutare. E qui… le piccole manine nere,
sporche magari di terra, facevano una gran fatica ad allontanarsi
dalle nostre, bianche e pulite
con l’Amuchina in gel.
Staccarsi da quei volti è stato forse il
primo, grosso, strappo che abbiamo subito… pur certi che, nel corso
del nostro viaggio, saremo costretti a viverne altri.
Alla fine, mentre il nostro pulmino
ripartiva, rimanevano i bambini a rincorrerci nel polverone.
Secondo giorno, Kofele
Padre Bernardo è stato categorico:
la Domenica non si lavora.
Quindi il nostro servizio si è
trasformato in esperienza di confronto e di osservazione nella sua
missione a Kofele.
Qui ci ha accolto una piccola e
giovane comunità di cristiani, appena 12 famiglie. Nella loro
parrocchia, gestita dal frate romagnolo, abbiamo partecipato alla
celebrazione della Santa Messa, che è stata recitata in ben tre
lingue diverse.
Il momento in cui questa accoglienza
si è fatta sentire più fortemente è stato lo “scambio musicale”
che abbiamo avuto con coloro che assistevano alla celebrazione: loro
con il canto tipico di questa terra, dal ritmo così caratteristico,
accompagnato rigorosamente con il tamburo; noi con le nostre chitarre
e voci e melodie del tutto diverse (Fin troppo comuni, alle nostre
orecchie abituate).
La testimonianza di fede di questa
piccola comunità, raccolta con il vestito della festa ben tenuto
solo per le grandi occasioni, ci è giunta con tutta la sua forte
semplicità, per quanto seguire la celebrazione in una lingua così
estranea alla nostra sia stato comunque complesso.
È difficile
riprodurre le parole che Padre Bernardo ci ha donato nella sua
omelia, parole di una fede in crescita, che ancora deve creare delle
radici forti in un territorio che, ci è stato ripetuto più volte, è
a prevalenza musulmano. Ma anche la testimonianza di uno Spirito
condiviso tra tutti i cristiani del pianeta, che ci rende tutti figli
di un unico Padre, il quale ha lasciato in dono a tutti i popoli
della terra la sua eredità nella figura di Cristo.
Dopo aver condiviso altri canti e
aver ricevuto l’accoglienza calorosa di tutta la diocesi della
zona, è stata la volta del gioco e dell’allegria dei bimbi di
queste famiglie. Nello stesso momento alcuni di noi hanno potuto
visitare il museo etnografico della cultura Oromo, nel quale la
tradizione di questo popolo ha preso forma concreta nei loro oggetti.
Anche questo significa contatto, anche questo significa capire.
Dopo un pasto frugale, pensato per
avvicinarci alla loro semplicità, abbiamo visitato le strutture
della missione lì a Kofele: un orto, la serra e i campi da calcio e
d’atletica. In questa struttura, in particolare, si allenano i
corridori olimpionici etiopi, per rafforzare la propria resistenza
(visto che la particolare altitudine rende più difficoltoso il
percorso). Certo… quando abbiamo provato noi, a correre sullo
stesso tracciato, sembrava fin troppo difficile.
Dopo i saluti finali ai bambini, e
il consueto piccolo strappo che abbiamo subito, siamo tornati a
Shashemene e qui, spinti dalle parole di Padre Bernardo, ci siamo
dedicati alla seconda attività principale della Domenica, dopo il
culto dello spirito: lo svago. Ed esso ha preso forma in due modi
diversi, apparentemente opposti: molte delle ragazze si sono
sottoposte ad una seduta di parrucco, facendosi intrecciare i capelli
nelle tradizionali treccine africane; i ragazzi, invece, hanno
preferito riprendere l’allenamento fisico e raggiungere il campetto
da calcio più vicino. Quaggiù abbiamo trovato, tra il polverone
alzato dai piedi scalzi dei bambini, una quindicina di ragazzini
etiopi. Questa volta però, non abbiamo ceduto ai loro sguardi, o
alla forza del tifo locale: Italia-Etiopia 4-2. Vedremo di organizzare la partita di
ritorno in casa.
Questa sera è prevista una attività
culturale di spessore: impareremo la lingua oromo.
A tre giorni dal Natale il nostro
pensiero, e il nostro caloroso saluto, è rivolto anche a voi che
leggerete queste righe da casa.
Terzo giorno, Karso e Denda
Una canzone scout che ben conosciamo
recita: “la fatica aiuta a crescere”. Quindi nel nostro viaggio
etiope è stata, oggi, la volta di rimboccarsi le maniche della
camicia e sporcarci le mani.
Dopo una sveglia anticipata alle ore
6 siamo partiti per il villaggio di Karso.
Il pulmino, dopo una breve
sosta a Kofele, ci ha scaricati nel mezzo di una strada polverosa e
abbiamo cominciato a camminare. Qualcuno ci aveva predetto due ore di
cammino ma, vuoi per il nostro essere scout, il viaggio è durato
solamente quaranta minuti.
Convinti, quindi, di aver terminato
con le attività fisiche, per la giornata, siamo arrivati nel piccolo
villaggio di capanne di Karso; ma le nostre previsioni si sono
rivelate del tutto inesatte: ad aspettaci, infatti, c’era un cumulo
di pietre, una catasta di pali di legno e una montagnetta di sabbia
da spostare.
A Karso, infatti, dovrà sorgere,
costruita con quei materiali poveri ed essenziali, una nuova
chiesetta per accogliere la giovanissima comunità cattolica che
Padre Bernardo vuole far nascere.
Tra chi ha costituito una catena
umana per spostare i sassi, chi ha usato dei logori sacchi rossi per
trasportare la sabbia, chi ha trascinato lunghi pali di legno e chi
ha animato i bambini del villaggio prima e dopo essere stati a
scuola, sono passate le ore della nostra mattinata.
Quando oramai i
lavori erano sul punto di essere conclusi alcuni di noi hanno avuto
la possibilità di sperimentare il viaggio che, ogni giorno, gli
abitanti del villaggio devono compiere per raggiungere la fonte
d’acqua. Dopo un’ora di sentiero, tra discesa e salita con le
taniche piene, siamo riusciti a tornare al villaggio.
A questo punto Padre Bernardo, dopo
aver tirato fuori una corda da 7 metri, ha tracciato sulla dura terra
della collina la pianta della futura chiesetta: una circonferenza
segnata con una serie di canne. Mancava solamente una cosa da fare:
per usare le parole di Bernardo abbiamo “tirato giù lo Spirito
Santo” su quel luogo, su quella futura terra di culto.
La cerimonia
è stata semplice, ma molto toccante; soprattutto perché con essa
comincia una nuova avventura alla quale, ne abbiamo avuto la
certezza, abbiamo partecipato anche noi.
Terminato questo momento abbiamo
usufruito ancora una volta della generosissima ospitalità di questo
popolo e, dopo esserci stretti nella capanna di fronte alla futura
chiesa, abbiamo pranzato: oltre al piatto tipico, simile alla
polenta, che abbiamo mangiato il primo giorno, ci è stato offerto
del capretto in una salsa piccante (che ha messo a dura prova molti
di noi) e l’injera (una sorta di piada umida e spugnosa dal gusto
leggermente acido).
Salutato anche il villaggio di
Karso, non prima che il capo famiglia ci invitasse a tornare il
prossimo anno (magari!), abbiamo ripreso il cammino inverso ma, una
volta risaliti sul pulmino, non siamo tornati verso Shashemene bensì
in direzione di un altro villaggio: Denda.
Qui Padre Bernardo, per aiutare la
famiglia cristiana che ci vive, ha montato un tendone sotto al quale
ci siamo ritrovati con gli abitanti. Con loro abbiamo condiviso il
canto e la preghiera e, con nostro stupore, un nuovo pasto. Questo
perché, ci hanno detto chiaramente, per loro è importante
condividere con noi che veniamo da lontano due cose, ossia la
spiritualità e il cibo.
Dopo aver mangiato, e terminato il
pasto con una tazza di the alla cannella che ha colpito tutti noi per
la sua bontà, è stato un privilegio poter condividere anche la
gioia della danza. Anche in questo caso c’è stata la differenza
dei due popoli, perché noi ballavamo con i nostri canti mentre loro
al solo ritmo del tamburo; ma ciò che era più evidente, al di là
delle differenze, era la gioia reciproca di essere lì, in quel
momento, in quell’incontro di popoli così caloroso.
A fatica (nonché in ritardo) siamo
venuti via.
Quarto e quinto giorno, Gode e
Kofele
Per il giorno della vigilia e del
Santo Natale abbiamo momentaneamente spostato la nostra base
operativa a Kofele.
Ma la prima tappa della vigilia è
stata a Gode, dove siamo tornati per offrire il nostro lavoro. Mentre
alcuni di noi riprendevano il lavoro di alfabetizzazione, questa
volta con tanto di lavagna e gessetti bianchi, i restanti hanno
imbracciato piccone, zappa e pala; lo scopo: appianare un terreno in
discesa per la costruzione della nuova chiesa.
La nuova esperienza
che abbiamo fatto è stata la condivisione del lavoro con gli
abitanti del luogo, che hanno collaborato con noi.
Per quanto la collaborazione sia
risultata difficile, è stato anche nel lavoro fisico che abbiamo
notato le differenze tra le nostre culture: mentre noi cercavamo di
organizzare il lavoro nel modo più razionale possibile, loro hanno
imbracciato semplicemente il piccone e, con una foga che non ci
saremmo mai aspettati, si sono messi a scavare. La difficoltà è
stata cercar di far combaciare il nostro progetto con la loro voglia
di lavorare.
Il pomeriggio, che abbiamo trascorso
a Kofele, è passato nella preparazione della cerimonia notturna:
c’era chi si è occupato di preparare i canti (tra cui una versione
tradotta in oromo di “Tu scendi dalle stelle”), chi ha pensato
all’animazione della cerimonia, chi ha costruito il presepe, usando
tutti materiali reperibili (derivanti quasi tutti dalle foglie del
finto banano, da cui abbiamo ottenuto corde per le legature, il bue e
l’asinello, la stella cometa e molto altro).
Alle cinque del
pomeriggio abbiamo avuto l’onore di assistere alla recita di Natale
dei bambini della scuola materna, che hanno rappresentato la
natività.
Iniziata dopo una veglia notturna
attorno al fuoco, la Santa Messa notturna è stata celebrata in
italiano, per quanto abbiano partecipato alcuni cattolici locali. In
un clima estremamente toccante la nascita di Cristo è stata per noi
il momento di verificare il cammino svolto, e mettere in relazione la
nostra fede con coloro che ci hanno accolto.
Il momento più forte
è stato quando, dopo aver ricevuto la comunione, un blackout ci ha
lasciati al buio completo e la sola luce delle candele illuminava il
volto di Padre Bernardo.
Ma il blackout, per quanto qui
riesca a spegnere un’intera città, non ha potuto lasciarci al buio
completo quando siamo usciti dalla chiesetta: una bianca stellata,
chiara e luminosa come non mai, ci aspettava per fare da tetto alla
nostra notte di Natale.
La giornata di oggi è trascorsa
sempre a Kofele e, nel pieno spirito di festa, è stata alla luce del
divertimento e della comunità. Divertimento perché abbiamo
trascorso praticamente tutta la giornata con i bambini della scuola
materna ed elementare. Quando al mattino ci siamo ritrovati a essere
“travolti” dai più piccoli, non potevamo certo aspettarci che al
pomeriggio ci saremmo ritrovati a dover far giocare più di
cinquecento (562, ad essere precisi) bambini e ragazzi della scuola
elementare.
Così, tra i giochi che ci siamo
ritrovati ad organizzare in fretta e furia, abbiamo organizzato dieci
cerchi e dieci gruppi e cercato di regalare a quei ragazzi, in divisa
rossa e blu, un pomeriggio di svago del tutto nuovo.
Abbiamo terminato di celebrare il
Santo Natale qui a Shashemene grazie alle favolose, fantastiche,
strepitose, mirabolanti suore che ci ospitano e che ci hanno
organizzato una cerimonia del caffè (rito tipico etiope).
Sicuramente questa mattina non ci
siamo svegliati pensando di aprire i regali sotto l’albero, ma è
stato comunque un Natale bellissimo.
Sesto giorno, Dodola
Questa mattina, per festeggiare
Santo Stefano, siamo andati a Dodola, un villaggio a due ore di
strada da Shashemene, dove abbiamo giocato con dei bambini della
scuola elementare e dell’asilo costruiti grazie a Don Vito.
Ci
siamo divisi in gruppi e sono partite le danze! Nonostante il caldo e
la fatica, le grida di gioia dei bambini e i loro sorrisi ci hanno
contagiato subito.
Il tempo è volato ed è arrivata
l’ora per i bimbi di tornare nelle loro classi.
Ma noi avevamo in
serbo una sorpresina per loro: magliette nuove e colorate per tutti!
Siamo entrati nelle loro aule in gruppetti per distribuirle ed erano
tutti impazienti, maestri compresi, di provarle. Benché fossero
troppo grandi, le hanno sfoggiate da subito con orgoglio e per tutto
il pomeriggio non hanno fatto altro che ringraziarci.
Per l’ora di pranzo i ragazzi sono
tornati nelle loro case e così anche noi abbiamo iniziato il nostro
pasto appetitoso: pane, banane e formaggio in quantità. Con un
tattico riposino post pranzo abbiamo ripreso le forze e dopo aver
suonato e cantato con il piccolo pubblico di scolaretti, è iniziato
l’incontro con Don Vito, il parroco diocesano del posto, che ci ha
parlato del suo ruolo rispondendo alle nostre domande. Ci ha fatto
notare aspetti nuovi della realtà che stiamo vivendo: politica,
cultura, costruzioni, lingua e alcune curiosità.
Dopo questo interessante momento,
alcuni di noi sono tornati a giocare con i grandi e altri con i più
piccoli, anche se il tempo a disposizione era poco.
Abbiamo seguito Don Vito che ci ha
fatto visitare i vari edifici della missione, tra cui una chiesa e un
complesso in costruzione ed è arrivato il momento di tornare a casa.
I bambini ci hanno salutato con tanto entusiasmo, sorprendendoci con
baci sulle guance, che non avevamo mai ricevuto prima!
POST ADULTI:
Questa mattina mentre il clan
incontrava i bambini a Dodola, la comunità degli adulti è andata
insieme a Padre Bernardo a visitare un asilo a 10 km da Dodola in un
piccolissimo villaggio immerso nei campi di grano. In questo asilo
c’era una sola classe di bambini che imparavano l’alfabeto. Ci
siamo anche noi cimentati nell’imparare ed insegnare l’alfabeto
“Oromo” ed alla fine abbiamo consegnato ai bambini dei quaderni
per incoraggiare la loro attività scolastica.
I bambini erano ancora pochi, ma
viso che c’è spazio per una seconda classe, ci auguriamo che altri
bambini possano avere l’opportunità di studiare!
Settimo giorno, Gode e Kofele
“La terra chiede inchini”, e mai
come oggi ci è stato chiaro.
Nel nostro ritornare a Gode abbiamo
trovato ad aspettarci una ventina di falcetti nuovi e un campo di
grano da mietere. Sotto il sole di una limpida giornata etiope
abbiamo passato la mattinata a falciare, legare e trasportare le
fascine.
È
stato un ritorno alla terra, a un’azione pura e dal grandissimo
significato: lavorare per nutrire quel popolo, tornando ai lavori che
i nostri bisnonni facevano all’incirca allo stesso modo, è stato
un momento di vicinanza fortissimo.
La nostra inesperienza alla falce è
stata parzialmente compensata dalla spiegazione veloce, ma non è
passato molto tempo che abbiamo potuto avere direttamente l’esempio
sul campo.
Mentre noi, falciatori stanchi ed “in erba”, puntavamo
avanti in silenzio loro lavoravano con una velocità che ci ha
sorpresi, per di più cantando.
Alla fine di questa esperienza
abbiamo condiviso il pranzo nella tenda della missione, mentre alcuni
sono stati invitati dal proprietario del terreno a consumare
l’energetica polenta nella sua casa.
Sulla strada per il ritorno ci siamo
trattenuti a Kofele dove abbiamo incontrato, oltre ai bambini della
missione, il gruppo di riminesi capitanati da Suor Lorella, che come
noi sono in Etiopia dal 19 Dicembre. Dopo aver giocato un po’ con i
bambini, e condiviso una partita a calcetto, abbiamo ripreso la via
per Shashemene.
Ottavo e nono
giorno, WondoGenet, Shashemene, Kofele, lago di Awassa
Ci siamo goduti il week end; che da
queste parti si traduce con un po’ di relax; ma prima di cominciare
qualunque azione,nella giornata di ieri, ci hanno finalmente
raggiunto Claudia, Giulio e Don Alessio.
Dopo averli accolti con un piacevole
scherzo, siamo stati qualche ora alle terme di WondoGenet, dove
abbiamo potuto fare un’escursione tra le montagne vicine (alla
ricerca della fauna locale… con uno scarso risultato) e il bagno
nelle acque termali, che sgorgano alla sorgente alla temperatura di
85° (tanto da cuocere una patata in 15 minuti!).
Tornati alla casa di Shashemene,
subito dopo pranzo, ci siamo sposati nel campetto da calcio, dove la
nostra nazionale aveva giocato contro quella locale, e qui abbiamo
incontrato il gruppo di scout cattolici di Shashemene. Per quanto
anche la loro esperienza sia molto diversa dalla nostra (ci hanno
accolto con una parata di tamburi) è stato molto bello riscontrare
come i valori su cui abbiamo fondato la nostra scelta siano condivisi
ovunque, persino quaggiù.
Trovare le rivisitazioni delle nostre
danzee dei nostri gesti ci ha stupito e divertito e il nostro
pomeriggio con loro è passato veloce con il “programma di attività”
che avevano preparato appositamente per noi.
Ma il momento più toccante del
nostro incontro è stato quello più spontaneo, lo scambio del simbolo
che ci sta più a cuore: il fazzolettone. Quindi non stupitevi se ci
vedrete tornare con dei colori un po’ diversi dal solito!
Da Shashemene ci siamo spostati
nuovamente a Kofele dove, dopo aver incontrato il gruppo di riminesi
guidati da Suor Lorella, abbiamo vissuto un momento di veglia alle
stelle molto intenso sul tema del tempo.
La giornata di oggi è cominciata,
quindi, aKofele anche se, dopo una sfida a scalpo tra Cristian e
Giulia per risolvere un’accesa discussione familiare, abbiamo dovuto
ben presto salutare la missione e le suore che ci hanno accolto.
Nel
pomeriggio il nostro riposo si è trasferito sul lago di Awasa dove,
dopo aver incontrato le varie specie di scimmie, il nostro gruppo ha
noleggiato tre barchette a motore per un giro sulle acque alla ricerca
degli ippopotami: anche questa volta scarso successo (registriamo
con malinconia che gli animali etiopi sono molto meno accoglienti
della popolazione).
Dopo un frugale pranzo siamo tornati
a Shashemene dove le magnifiche sisters ci hanno sorpreso nuovamente
con il rito del caffè. Nel tardo pomeriggio abbiamo celebrato la
Santa Messa durante laquale, per la prima volta, abbiamo avuto la
performance musicale delle ragazze più piccole.
Prima di cenare
abbiamo salutato, con un po’ di tristezza, le suore cappuccine di
Maria Rubbatò che così amorevolmente ci hanno accudito in questi
giorni qui a Shashemene.
Un immenso, gigantesco GALATOMA!
Decimo e undicesimo giorno,
viaggio da Shashemene, Addis Abeba
Solita sveglia alle 7:00, colazione
e mattinata, per così dire, culturale. La prima tappa è stato il
National Museum of Ethiopia, in cui, oltre a molti reperti
archeologici, abbiamo fatto conoscenza con la celebre primate Lucy,
nostra lontanissima antenata.
Poco distante dal centro Romagna,
tra le vie caotiche della capitale etiope, ci siamo poi diretti al
museo etnico, in un’ala del palazzo costruito dagli italiani
durante l’occupazione dell’Etiopia (villa dell’imperatore
Selassie), ora sede universitaria.
All’interno delle varie sale
erano allestiti quadri antichi, vecchi strumenti musicali, utensili
di ogni genere. Pedro e Paso si sono improvvisati con ottimi
risultati brillanti guide.
Siamo tornati alla missione per il
pranzo dopo il quale abbiamo avuto un momento di dialogo/dibattito
sul significato di “essere piccoli” all’interno della comunità
e sull’egoismo caratterizzante le società occidentali.
Siamo poi risaliti a bordo dei vari
pullmini diretti alla “Caritas” di Addis Abeba, il centro San
Giuseppe, dove abbiamo avuto un incontro con Laura, una delle
volontarie dirigenti. Ci ha spiegato in che modo gli “assistiti”
vengono aiutati quotidianamente: doccia e lavaggio dei panni, visite
infermieristiche, aiuto di donne incinte, anziani e malati di Hiv, il
totale carico per alcune famiglie delle spese sanitarie, degli
affitti, dell’istruzione dei più piccoli… in aggiunta in altri
stabili, che con gli anni sono stati costruiti, si sono sviluppati
dei laboratori volti all’apprendimento di alcuni mestieri, in modo
da salvare gli ultimi dalla vita nelle baracche o per strada.
Abbiamo poi condiviso la messa con i
volontari del centro e altri due padri missionari, un portoghese e un
tedesco al fianco di don Alessio.
Per il “cenone” le suore ci
hanno preparato una graditissima pizza e il programma della serata
prevede cabaret.
Cogliamo l’occasione per fare i
più sentiti auguri di buon anno alle famiglie e a tutti quelli che
ci stanno seguendo e supportando dalla penisola.
Tanti auguri!
Dodicesimo giorno, Addis Abeba
Ci siamo svegliati alle 7:30 e fino
alle 8:45 ci siamo nutriti per mezzo di una fantastica crostata fatta
dalle suore.
Siamo partiti e fino all’ultimo la
nostra destinazione era ignota. Giunti alla meta abbiamo vissuto il
momento del Deserto.
Nel pomeriggio abbiamo visitato il
Bosco Children Center e ci hanno spiegato come funziona la struttura.
Il suo scopo è accogliere i ragazzi di strada dai 10 ai 18 anni,
fornirgli un’ istruzione ed inserirli nel mondo del lavoro.
Alle 18 abbiamo partecipato alla
S.Messa celebrata in una chiesa cattolica in Addis-Abeba.
Tredicesimo giorno, Addis
Abeba-Orfanotrofio e Ospedale delle suore di Madre Teresa
Anche questa mattina sveglia alle 7.
Ci siamo divisi in due gruppi: il Clan è andato all’ospedale dalle
suore di Madre Teresa di Calcutta e il gruppo degli adulti in un
orfanotrofio, poi nel pomeriggio ci siamo invertiti. Appena arrivati
alla clinica, una guida ci ha fatto visitare la struttura,
mostrandoci le diverse sezioni: una parte dedicata al ricovero di
malati di vario genere, gli ambulatori, i laboratori, un’altra
riservata a bambini con handicap, e una terza che ospita madri giovani
senza casa.
Divisi in più gruppi ci siamo messi al servizio delle
sorelle giocando con dei bambini, ragazze con handicap e malattie
mentali e aiutando i volontari a servire il pranzo agli ospiti del
centro.
Le emozioni sono state forti, è stata una realtà difficile
da visitare, ma l’impegno dei volontari e delle sorelle ci ha
profondamente affascinato e ci ha aiutato a relazionarci al meglio
con i pazienti, regalando e ricevendo un bel sorriso a quelle
persone.
Allo stesso modo nell’orfanotrofio,
ci siamo divisi in gruppettini per non disturbare le attività della
piccola struttura. Guidati da suor Erualda alcuni ragazzi hanno
visitato delle stanze che ospitavano bambini disabili e neonati.
Altri di noi si sono cimentati in una sfida a pallone e altri si sono
divertiti a giocare con il resto degli orfani con tanto di
palloncini, nasi e parrucche.
Ultime ore - Da Addis Abeba a
Riccione
Dopo una mattinata dedicata alle
“folli” compere nei piccoli bazar turistici di Addis Abeba,
abbiamo terminato la nostra permanenza nella capitale etiope con un
pomeriggio dedicato alla tranquilla condivisione dell’esperienza e
alla verifica generale delle attività.
Automuniti, poi, di estremo coraggio
e senso dell’umorismo abbiamo deciso di affrontare il piatto tipico
della città: la pizza. A sorpresa l’esperienza si è rivelata meno
traumatica del previsto (sicuramente merito anche dell’onnisciente
Padre Bernardo che ci ha consigliato la pizzeria migliore).
Terminate le ultime pulizie della
struttura e la preparazione degli zaini è venuto il momento dei
saluti e dei regali rivolti a chi, in questi giorni, ci ha aiutato ed
accompagnato: quindi un gigantesco GRAZIE alle Suore delle due
missioni, ad Abram e Jonas (i nostri fantastici autisti), a Marco e
Grazia (Le guide che tutti vorrebbero avere) e a Padre Bernardo.
Quest’ultimo ci ha lasciati con un
discorso molto chiaro semplice e diretto, come solo un missionario
che è vissuto trent’anni in Africa può fare: “vieni, vedi e poi
decidi”, ci ha detto, perché ora che abbiamo visto, che siamo
entrati in contatto con quella realtà, non possiamo più essere
indifferenti. Il continente nero e l’Etiopia hanno bisogno di noi,
ma non di un nostro ritorno (almeno non nell’immediato): il mandato
che Bernardo ci ha dato è stato quello di “dare voce” a questi
popoli, essere attivi testimoni della loro semplicità, immensa
accoglienza, forti tradizioni, incrollabile fede e bisogno di aiuto.
Perché, ci ha detto, questo popolo non ha solamente bisogno di aiuti
materiali ma anche e soprattutto di attenzione ed esempi.
Ed ora che siamo sul pullman del
ritorno, dopo aver passato le ultime ventuno ore a viaggiare, in
questa serata di pioggia (alla quale dopo venti giorni ci eravamo
proprio disabituati), che già vede alcuni soffrire dei primi sintomi
da “mal d’Africa”, non possiamo fare a meno di chiederci dove
questo mandato ci porterà.
Buona Strada.