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domenica 23 marzo 2025
 
Diario di viaggio del Gruppo Scout Riccione 1
 

"L'Africa ci ha chiamati"

05/01/2014  Quindici giorni in Etiopia. Un viaggio da cui non si torna come prima. Ecco il diario del "Gruppo Scout Riccione 1": "Perché, poi, l'Africa?", scrivono. "L'Africa ha bisogno di noi più di altri luoghi? No. L'Africa non ha bisogno di noi: siamo noi ad aver bisogno dell'Africa".

Primo Giorno, Gode

Dopo un viaggio lungo più di un giorno, estenuati da una corsa in pulmino sotto il sole, siamo finalmente arrivati a Shashemene. Ad accoglierci un gruppo sorridente e disponibile di tre suore cappuccine e le loro aspiranti e con un buonissimo ciambellone accompagnato da una tazza di thè.

Il villaggio che ospita una delle missioni gestite da Padre Bernardo è situato in una vallata circondata da colline coltivate. Qui si trova una piccola cappellina dove, appena arrivati, abbiamo trovato ad accoglierci un inaspettato coro di bambini locali. Dopo i primi, intensissimi, sguardi e sorrisi siamo entrati nella missione.

All’interno di un grande tendone verde scuro Padre Bernardo, dopo averci fatto assistere alla preghiera della piccola comunità, i cui membri hanno cantato il Padre Nostro in oromo, ha assegnato a ogni coppia di noi scout un bambino o ragazzo etiope. Scopo: insegnare loro a scrivere le prime parole dell’ “Abbaa Keenya” (Padre Nostro). Tra quelli che riuscivano a maneggiare agilmente una penna nera, e i bambini che, al contrario, avevano una certa difficoltà a distinguere le lettere, siamo riusciti tutti (o quasi…) a fare in modo che i nostri piccoli allievi superassero l’arduo esame di Padre Bernardo.

Sicuramente, però, il momento più toccante della nostra mattinata è avvenuto dopo la premiazione (la consegna dei quaderni agli allievi meritevoli) e un momento di danze e giochi: siamo stati divisi in cinque gruppi ognuno dei quali ha avuto il privilegio di pranzare nella capanna di una famiglia locale.

Le capanne in cui siamo stati accolti, nella maniera più calorosa che personalmente abbia mai ricevuto, sono circolari, fatte in fango e legna. Il tetto è costruito con dei lunghi filari di paglia intrecciata; per isolarle dal freddo sono senza finestre e, quindi, non molta luce riesce ad entrare. Per costruirle, ci è stato detto, ci vogliono circa due mesi. Al loro interno l’intera famiglia, nella maggior parte dei casi, ci ha accolto con il “piatto della festa”: un calice di legno intarsiato che viene regalato alla coppia che si sposa. Dentro di esso si cucina un piatto tipico dalla consistenza tipica della polenta ma dal sapore… … indescrivibile.

Anche noi abbiamo provato a rispondere alla cortesia di un’accoglienza così enormemente generosa, per quanto essenziale, con dei piccoli doni. Alcuni di noi sono stati salutati con un altro canto, altri ancora hanno fatto foto alla famiglia che li ha accolti, e alla loro casa… ma ciò che più ci ha colpiti è stato lo sguardo, incapace di dire altro se non: sono contento che tu sia qui.

Dai loro gesti, dalle loro stentate parole in un incerto inglese si capiva chiaramente quanto la nostra presenza fosse un onore immenso che regalavamo alla loro umile dimora. Alcuni di noi si sono sentiti persino a disagio quando, prima di servirci il pasto, ci hanno lavato le mani con una brocca d’acqua. Dopo aver assaporato questi nuovi gusti, e questa nuova cortesia, abbiamo raggiunto nuovamente la missione dove, dopo tanti saluti e una quantità innumerevole di foto, ci siamo dovuti salutare. E qui… le piccole manine nere, sporche magari di terra, facevano una gran fatica ad allontanarsi dalle nostre, bianche e pulite con l’Amuchina in gel.

Staccarsi da quei volti è stato forse il primo, grosso, strappo che abbiamo subito… pur certi che, nel corso del nostro viaggio, saremo costretti a viverne altri. Alla fine, mentre il nostro pulmino ripartiva, rimanevano i bambini a rincorrerci nel polverone.

Secondo giorno, Kofele

Padre Bernardo è stato categorico: la Domenica non si lavora. Quindi il nostro servizio si è trasformato in esperienza di confronto e di osservazione nella sua missione a Kofele.

Qui ci ha accolto una piccola e giovane comunità di cristiani, appena 12 famiglie. Nella loro parrocchia, gestita dal frate romagnolo, abbiamo partecipato alla celebrazione della Santa Messa, che è stata recitata in ben tre lingue diverse. Il momento in cui questa accoglienza si è fatta sentire più fortemente è stato lo “scambio musicale” che abbiamo avuto con coloro che assistevano alla celebrazione: loro con il canto tipico di questa terra, dal ritmo così caratteristico, accompagnato rigorosamente con il tamburo; noi con le nostre chitarre e voci e melodie del tutto diverse (Fin troppo comuni, alle nostre orecchie abituate).

La testimonianza di fede di questa piccola comunità, raccolta con il vestito della festa ben tenuto solo per le grandi occasioni, ci è giunta con tutta la sua forte semplicità, per quanto seguire la celebrazione in una lingua così estranea alla nostra sia stato comunque complesso.

È difficile riprodurre le parole che Padre Bernardo ci ha donato nella sua omelia, parole di una fede in crescita, che ancora deve creare delle radici forti in un territorio che, ci è stato ripetuto più volte, è a prevalenza musulmano. Ma anche la testimonianza di uno Spirito condiviso tra tutti i cristiani del pianeta, che ci rende tutti figli di un unico Padre, il quale ha lasciato in dono a tutti i popoli della terra la sua eredità nella figura di Cristo.

Dopo aver condiviso altri canti e aver ricevuto l’accoglienza calorosa di tutta la diocesi della zona, è stata la volta del gioco e dell’allegria dei bimbi di queste famiglie. Nello stesso momento alcuni di noi hanno potuto visitare il museo etnografico della cultura Oromo, nel quale la tradizione di questo popolo ha preso forma concreta nei loro oggetti. Anche questo significa contatto, anche questo significa capire.

Dopo un pasto frugale, pensato per avvicinarci alla loro semplicità, abbiamo visitato le strutture della missione lì a Kofele: un orto, la serra e i campi da calcio e d’atletica. In questa struttura, in particolare, si allenano i corridori olimpionici etiopi, per rafforzare la propria resistenza (visto che la particolare altitudine rende più difficoltoso il percorso). Certo… quando abbiamo provato noi, a correre sullo stesso tracciato, sembrava fin troppo difficile.

Dopo i saluti finali ai bambini, e il consueto piccolo strappo che abbiamo subito, siamo tornati a Shashemene e qui, spinti dalle parole di Padre Bernardo, ci siamo dedicati alla seconda attività principale della Domenica, dopo il culto dello spirito: lo svago. Ed esso ha preso forma in due modi diversi, apparentemente opposti: molte delle ragazze si sono sottoposte ad una seduta di parrucco, facendosi intrecciare i capelli nelle tradizionali treccine africane; i ragazzi, invece, hanno preferito riprendere l’allenamento fisico e raggiungere il campetto da calcio più vicino. Quaggiù abbiamo trovato, tra il polverone alzato dai piedi scalzi dei bambini, una quindicina di ragazzini etiopi. Questa volta però, non abbiamo ceduto ai loro sguardi, o alla forza del tifo locale: Italia-Etiopia 4-2. Vedremo di organizzare la partita di ritorno in casa.

Questa sera è prevista una attività culturale di spessore: impareremo la lingua oromo. A tre giorni dal Natale il nostro pensiero, e il nostro caloroso saluto, è rivolto anche a voi che leggerete queste righe da casa.

Terzo giorno, Karso e Denda

Una canzone scout che ben conosciamo recita: “la fatica aiuta a crescere”. Quindi nel nostro viaggio etiope è stata, oggi, la volta di rimboccarsi le maniche della camicia e sporcarci le mani. Dopo una sveglia anticipata alle ore 6 siamo partiti per il villaggio di Karso.

Il pulmino, dopo una breve sosta a Kofele, ci ha scaricati nel mezzo di una strada polverosa e abbiamo cominciato a camminare. Qualcuno ci aveva predetto due ore di cammino ma, vuoi per il nostro essere scout, il viaggio è durato solamente quaranta minuti. Convinti, quindi, di aver terminato con le attività fisiche, per la giornata, siamo arrivati nel piccolo villaggio di capanne di Karso; ma le nostre previsioni si sono rivelate del tutto inesatte: ad aspettaci, infatti, c’era un cumulo di pietre, una catasta di pali di legno e una montagnetta di sabbia da spostare.

A Karso, infatti, dovrà sorgere, costruita con quei materiali poveri ed essenziali, una nuova chiesetta per accogliere la giovanissima comunità cattolica che Padre Bernardo vuole far nascere. Tra chi ha costituito una catena umana per spostare i sassi, chi ha usato dei logori sacchi rossi per trasportare la sabbia, chi ha trascinato lunghi pali di legno e chi ha animato i bambini del villaggio prima e dopo essere stati a scuola, sono passate le ore della nostra mattinata.

Quando oramai i lavori erano sul punto di essere conclusi alcuni di noi hanno avuto la possibilità di sperimentare il viaggio che, ogni giorno, gli abitanti del villaggio devono compiere per raggiungere la fonte d’acqua. Dopo un’ora di sentiero, tra discesa e salita con le taniche piene, siamo riusciti a tornare al villaggio. A questo punto Padre Bernardo, dopo aver tirato fuori una corda da 7 metri, ha tracciato sulla dura terra della collina la pianta della futura chiesetta: una circonferenza segnata con una serie di canne. Mancava solamente una cosa da fare: per usare le parole di Bernardo abbiamo “tirato giù lo Spirito Santo” su quel luogo, su quella futura terra di culto.

La cerimonia è stata semplice, ma molto toccante; soprattutto perché con essa comincia una nuova avventura alla quale, ne abbiamo avuto la certezza, abbiamo partecipato anche noi. Terminato questo momento abbiamo usufruito ancora una volta della generosissima ospitalità di questo popolo e, dopo esserci stretti nella capanna di fronte alla futura chiesa, abbiamo pranzato: oltre al piatto tipico, simile alla polenta, che abbiamo mangiato il primo giorno, ci è stato offerto del capretto in una salsa piccante (che ha messo a dura prova molti di noi) e l’injera (una sorta di piada umida e spugnosa dal gusto leggermente acido).

Salutato anche il villaggio di Karso, non prima che il capo famiglia ci invitasse a tornare il prossimo anno (magari!), abbiamo ripreso il cammino inverso ma, una volta risaliti sul pulmino, non siamo tornati verso Shashemene bensì in direzione di un altro villaggio: Denda.

Qui Padre Bernardo, per aiutare la famiglia cristiana che ci vive, ha montato un tendone sotto al quale ci siamo ritrovati con gli abitanti. Con loro abbiamo condiviso il canto e la preghiera e, con nostro stupore, un nuovo pasto. Questo perché, ci hanno detto chiaramente, per loro è importante condividere con noi che veniamo da lontano due cose, ossia la spiritualità e il cibo.

Dopo aver mangiato, e terminato il pasto con una tazza di the alla cannella che ha colpito tutti noi per la sua bontà, è stato un privilegio poter condividere anche la gioia della danza. Anche in questo caso c’è stata la differenza dei due popoli, perché noi ballavamo con i nostri canti mentre loro al solo ritmo del tamburo; ma ciò che era più evidente, al di là delle differenze, era la gioia reciproca di essere lì, in quel momento, in quell’incontro di popoli così caloroso.

A fatica (nonché in ritardo) siamo venuti via.

Quarto e quinto giorno, Gode e Kofele

Per il giorno della vigilia e del Santo Natale abbiamo momentaneamente spostato la nostra base operativa a Kofele. Ma la prima tappa della vigilia è stata a Gode, dove siamo tornati per offrire il nostro lavoro. Mentre alcuni di noi riprendevano il lavoro di alfabetizzazione, questa volta con tanto di lavagna e gessetti bianchi, i restanti hanno imbracciato piccone, zappa e pala; lo scopo: appianare un terreno in discesa per la costruzione della nuova chiesa.

La nuova esperienza che abbiamo fatto è stata la condivisione del lavoro con gli abitanti del luogo, che hanno collaborato con noi. Per quanto la collaborazione sia risultata difficile, è stato anche nel lavoro fisico che abbiamo notato le differenze tra le nostre culture: mentre noi cercavamo di organizzare il lavoro nel modo più razionale possibile, loro hanno imbracciato semplicemente il piccone e, con una foga che non ci saremmo mai aspettati, si sono messi a scavare. La difficoltà è stata cercar di far combaciare il nostro progetto con la loro voglia di lavorare.

Il pomeriggio, che abbiamo trascorso a Kofele, è passato nella preparazione della cerimonia notturna: c’era chi si è occupato di preparare i canti (tra cui una versione tradotta in oromo di “Tu scendi dalle stelle”), chi ha pensato all’animazione della cerimonia, chi ha costruito il presepe, usando tutti materiali reperibili (derivanti quasi tutti dalle foglie del finto banano, da cui abbiamo ottenuto corde per le legature, il bue e l’asinello, la stella cometa e molto altro).

Alle cinque del pomeriggio abbiamo avuto l’onore di assistere alla recita di Natale dei bambini della scuola materna, che hanno rappresentato la natività. Iniziata dopo una veglia notturna attorno al fuoco, la Santa Messa notturna è stata celebrata in italiano, per quanto abbiano partecipato alcuni cattolici locali. In un clima estremamente toccante la nascita di Cristo è stata per noi il momento di verificare il cammino svolto, e mettere in relazione la nostra fede con coloro che ci hanno accolto.

Il momento più forte è stato quando, dopo aver ricevuto la comunione, un blackout ci ha lasciati al buio completo e la sola luce delle candele illuminava il volto di Padre Bernardo. Ma il blackout, per quanto qui riesca a spegnere un’intera città, non ha potuto lasciarci al buio completo quando siamo usciti dalla chiesetta: una bianca stellata, chiara e luminosa come non mai, ci aspettava per fare da tetto alla nostra notte di Natale.

La giornata di oggi è trascorsa sempre a Kofele e, nel pieno spirito di festa, è stata alla luce del divertimento e della comunità. Divertimento perché abbiamo trascorso praticamente tutta la giornata con i bambini della scuola materna ed elementare. Quando al mattino ci siamo ritrovati a essere “travolti” dai più piccoli, non potevamo certo aspettarci che al pomeriggio ci saremmo ritrovati a dover far giocare più di cinquecento (562, ad essere precisi) bambini e ragazzi della scuola elementare.

Così, tra i giochi che ci siamo ritrovati ad organizzare in fretta e furia, abbiamo organizzato dieci cerchi e dieci gruppi e cercato di regalare a quei ragazzi, in divisa rossa e blu, un pomeriggio di svago del tutto nuovo.

Abbiamo terminato di celebrare il Santo Natale qui a Shashemene grazie alle favolose, fantastiche, strepitose, mirabolanti suore che ci ospitano e che ci hanno organizzato una cerimonia del caffè (rito tipico etiope). Sicuramente questa mattina non ci siamo svegliati pensando di aprire i regali sotto l’albero, ma è stato comunque un Natale bellissimo.

Sesto giorno, Dodola

Questa mattina, per festeggiare Santo Stefano, siamo andati a Dodola, un villaggio a due ore di strada da Shashemene, dove abbiamo giocato con dei bambini della scuola elementare e dell’asilo costruiti grazie a Don Vito.

Ci siamo divisi in gruppi e sono partite le danze! Nonostante il caldo e la fatica, le grida di gioia dei bambini e i loro sorrisi ci hanno contagiato subito. Il tempo è volato ed è arrivata l’ora per i bimbi di tornare nelle loro classi.

Ma noi avevamo in serbo una sorpresina per loro: magliette nuove e colorate per tutti! Siamo entrati nelle loro aule in gruppetti per distribuirle ed erano tutti impazienti, maestri compresi, di provarle. Benché fossero troppo grandi, le hanno sfoggiate da subito con orgoglio e per tutto il pomeriggio non hanno fatto altro che ringraziarci.

Per l’ora di pranzo i ragazzi sono tornati nelle loro case e così anche noi abbiamo iniziato il nostro pasto appetitoso: pane, banane e formaggio in quantità. Con un tattico riposino post pranzo abbiamo ripreso le forze e dopo aver suonato e cantato con il piccolo pubblico di scolaretti, è iniziato l’incontro con Don Vito, il parroco diocesano del posto, che ci ha parlato del suo ruolo rispondendo alle nostre domande. Ci ha fatto notare aspetti nuovi della realtà che stiamo vivendo: politica, cultura, costruzioni, lingua e alcune curiosità.

Dopo questo interessante momento, alcuni di noi sono tornati a giocare con i grandi e altri con i più piccoli, anche se il tempo a disposizione era poco. Abbiamo seguito Don Vito che ci ha fatto visitare i vari edifici della missione, tra cui una chiesa e un complesso in costruzione ed è arrivato il momento di tornare a casa. I bambini ci hanno salutato con tanto entusiasmo, sorprendendoci con baci sulle guance, che non avevamo mai ricevuto prima!

POST ADULTI:
Questa mattina mentre il clan incontrava i bambini a Dodola, la comunità degli adulti è andata insieme a Padre Bernardo a visitare un asilo a 10 km da Dodola in un piccolissimo villaggio immerso nei campi di grano. In questo asilo c’era una sola classe di bambini che imparavano l’alfabeto. Ci siamo anche noi cimentati nell’imparare ed insegnare l’alfabeto “Oromo” ed alla fine abbiamo consegnato ai bambini dei quaderni per incoraggiare la loro attività scolastica. I bambini erano ancora pochi, ma viso che c’è spazio per una seconda classe, ci auguriamo che altri bambini possano avere l’opportunità di studiare!

Settimo giorno, Gode e Kofele

“La terra chiede inchini”, e mai come oggi ci è stato chiaro. Nel nostro ritornare a Gode abbiamo trovato ad aspettarci una ventina di falcetti nuovi e un campo di grano da mietere. Sotto il sole di una limpida giornata etiope abbiamo passato la mattinata a falciare, legare e trasportare le fascine.

È stato un ritorno alla terra, a un’azione pura e dal grandissimo significato: lavorare per nutrire quel popolo, tornando ai lavori che i nostri bisnonni facevano all’incirca allo stesso modo, è stato un momento di vicinanza fortissimo. La nostra inesperienza alla falce è stata parzialmente compensata dalla spiegazione veloce, ma non è passato molto tempo che abbiamo potuto avere direttamente l’esempio sul campo.

Mentre noi, falciatori stanchi ed “in erba”, puntavamo avanti in silenzio loro lavoravano con una velocità che ci ha sorpresi, per di più cantando. Alla fine di questa esperienza abbiamo condiviso il pranzo nella tenda della missione, mentre alcuni sono stati invitati dal proprietario del terreno a consumare l’energetica polenta nella sua casa.

Sulla strada per il ritorno ci siamo trattenuti a Kofele dove abbiamo incontrato, oltre ai bambini della missione, il gruppo di riminesi capitanati da Suor Lorella, che come noi sono in Etiopia dal 19 Dicembre. Dopo aver giocato un po’ con i bambini, e condiviso una partita a calcetto, abbiamo ripreso la via per Shashemene.

Ottavo e nono giorno, WondoGenet, Shashemene, Kofele, lago di Awassa

Ci siamo goduti il week end; che da queste parti si traduce con un po’ di relax; ma prima di cominciare qualunque azione,nella giornata di ieri, ci hanno finalmente raggiunto Claudia, Giulio e Don Alessio.

Dopo averli accolti con un piacevole scherzo, siamo stati qualche ora alle terme di WondoGenet, dove abbiamo potuto fare un’escursione tra le montagne vicine (alla ricerca della fauna locale… con uno scarso risultato) e il bagno nelle acque termali, che sgorgano alla sorgente alla temperatura di 85° (tanto da cuocere una patata in 15 minuti!).

Tornati alla casa di Shashemene, subito dopo pranzo, ci siamo sposati nel campetto da calcio, dove la nostra nazionale aveva giocato contro quella locale, e qui abbiamo incontrato il gruppo di scout cattolici di Shashemene. Per quanto anche la loro esperienza sia molto diversa dalla nostra (ci hanno accolto con una parata di tamburi) è stato molto bello riscontrare come i valori su cui abbiamo fondato la nostra scelta siano condivisi ovunque, persino quaggiù.

Trovare le rivisitazioni delle nostre danzee dei nostri gesti ci ha stupito e divertito e il nostro pomeriggio con loro è passato veloce con il “programma di attività” che avevano preparato appositamente per noi.

Ma il momento più toccante del nostro incontro è stato quello più spontaneo, lo scambio del simbolo che ci sta più a cuore: il fazzolettone. Quindi non stupitevi se ci vedrete tornare con dei colori un po’ diversi dal solito!

Da Shashemene ci siamo spostati nuovamente a Kofele dove, dopo aver incontrato il gruppo di riminesi guidati da Suor Lorella, abbiamo vissuto un momento di veglia alle stelle molto intenso sul tema del tempo.

La giornata di oggi è cominciata, quindi, aKofele anche se, dopo una sfida a scalpo tra Cristian e Giulia per risolvere un’accesa discussione familiare, abbiamo dovuto ben presto salutare la missione e le suore che ci hanno accolto.

Nel pomeriggio il nostro riposo si è trasferito sul lago di Awasa dove, dopo aver incontrato le varie specie di scimmie, il nostro gruppo ha noleggiato tre barchette a motore per un giro sulle acque alla ricerca degli ippopotami: anche questa volta scarso successo (registriamo con malinconia che gli animali etiopi sono molto meno accoglienti della popolazione).

Dopo un frugale pranzo siamo tornati a Shashemene dove le magnifiche sisters ci hanno sorpreso nuovamente con il rito del caffè. Nel tardo pomeriggio abbiamo celebrato la Santa Messa durante laquale, per la prima volta, abbiamo avuto la performance musicale delle ragazze più piccole.

Prima di cenare abbiamo salutato, con un po’ di tristezza, le suore cappuccine di Maria Rubbatò che così amorevolmente ci hanno accudito in questi giorni qui a Shashemene. Un immenso, gigantesco GALATOMA!

Decimo e undicesimo giorno, viaggio da Shashemene, Addis Abeba

Solita sveglia alle 7:00, colazione e mattinata, per così dire, culturale. La prima tappa è stato il National Museum of Ethiopia, in cui, oltre a molti reperti archeologici, abbiamo fatto conoscenza con la celebre primate Lucy, nostra lontanissima antenata.

Poco distante dal centro Romagna, tra le vie caotiche della capitale etiope, ci siamo poi diretti al museo etnico, in un’ala del palazzo costruito dagli italiani durante l’occupazione dell’Etiopia (villa dell’imperatore Selassie), ora sede universitaria.

All’interno delle varie sale erano allestiti quadri antichi, vecchi strumenti musicali, utensili di ogni genere. Pedro e Paso si sono improvvisati con ottimi risultati brillanti guide.

Siamo tornati alla missione per il pranzo dopo il quale abbiamo avuto un momento di dialogo/dibattito sul significato di “essere piccoli” all’interno della comunità e sull’egoismo caratterizzante le società occidentali.

Siamo poi risaliti a bordo dei vari pullmini diretti alla “Caritas” di Addis Abeba, il centro San Giuseppe, dove abbiamo avuto un incontro con Laura, una delle volontarie dirigenti. Ci ha spiegato in che modo gli “assistiti” vengono aiutati quotidianamente: doccia e lavaggio dei panni, visite infermieristiche, aiuto di donne incinte, anziani e malati di Hiv, il totale carico per alcune famiglie delle spese sanitarie, degli affitti, dell’istruzione dei più piccoli… in aggiunta in altri stabili, che con gli anni sono stati costruiti, si sono sviluppati dei laboratori volti all’apprendimento di alcuni mestieri, in modo da salvare gli ultimi dalla vita nelle baracche o per strada.

Abbiamo poi condiviso la messa con i volontari del centro e altri due padri missionari, un portoghese e un tedesco al fianco di don Alessio. Per il “cenone” le suore ci hanno preparato una graditissima pizza e il programma della serata prevede cabaret.

Cogliamo l’occasione per fare i più sentiti auguri di buon anno alle famiglie e a tutti quelli che ci stanno seguendo e supportando dalla penisola. Tanti auguri!

Dodicesimo giorno, Addis Abeba


Ci siamo svegliati alle 7:30 e fino alle 8:45 ci siamo nutriti per mezzo di una fantastica crostata fatta dalle suore. Siamo partiti e fino all’ultimo la nostra destinazione era ignota. Giunti alla meta abbiamo vissuto il momento del Deserto.

Nel pomeriggio abbiamo visitato il Bosco Children Center e ci hanno spiegato come funziona la struttura. Il suo scopo è accogliere i ragazzi di strada dai 10 ai 18 anni, fornirgli un’ istruzione ed inserirli nel mondo del lavoro.

Alle 18 abbiamo partecipato alla S.Messa celebrata in una chiesa cattolica in Addis-Abeba.

Tredicesimo giorno, Addis Abeba-Orfanotrofio e Ospedale delle suore di Madre Teresa

Anche questa mattina sveglia alle 7. Ci siamo divisi in due gruppi: il Clan è andato all’ospedale dalle suore di Madre Teresa di Calcutta e il gruppo degli adulti in un orfanotrofio, poi nel pomeriggio ci siamo invertiti. Appena arrivati alla clinica, una guida ci ha fatto visitare la struttura, mostrandoci le diverse sezioni: una parte dedicata al ricovero di malati di vario genere, gli ambulatori, i laboratori, un’altra riservata a bambini con handicap, e una terza che ospita madri giovani senza casa.

Divisi in più gruppi ci siamo messi al servizio delle sorelle giocando con dei bambini, ragazze con handicap e malattie mentali e aiutando i volontari a servire il pranzo agli ospiti del centro.

Le emozioni sono state forti, è stata una realtà difficile da visitare, ma l’impegno dei volontari e delle sorelle ci ha profondamente affascinato e ci ha aiutato a relazionarci al meglio con i pazienti, regalando e ricevendo un bel sorriso a quelle persone.

Allo stesso modo nell’orfanotrofio, ci siamo divisi in gruppettini per non disturbare le attività della piccola struttura. Guidati da suor Erualda alcuni ragazzi hanno visitato delle stanze che ospitavano bambini disabili e neonati. Altri di noi si sono cimentati in una sfida a pallone e altri si sono divertiti a giocare con il resto degli orfani con tanto di palloncini, nasi e parrucche.

Ultime ore - Da Addis Abeba a Riccione


Dopo una mattinata dedicata alle “folli” compere nei piccoli bazar turistici di Addis Abeba, abbiamo terminato la nostra permanenza nella capitale etiope con un pomeriggio dedicato alla tranquilla condivisione dell’esperienza e alla verifica generale delle attività.

Automuniti, poi, di estremo coraggio e senso dell’umorismo abbiamo deciso di affrontare il piatto tipico della città: la pizza. A sorpresa l’esperienza si è rivelata meno traumatica del previsto (sicuramente merito anche dell’onnisciente Padre Bernardo che ci ha consigliato la pizzeria migliore).

Terminate le ultime pulizie della struttura e la preparazione degli zaini è venuto il momento dei saluti e dei regali rivolti a chi, in questi giorni, ci ha aiutato ed accompagnato: quindi un gigantesco GRAZIE alle Suore delle due missioni, ad Abram e Jonas (i nostri fantastici autisti), a Marco e Grazia (Le guide che tutti vorrebbero avere) e a Padre Bernardo.

Quest’ultimo ci ha lasciati con un discorso molto chiaro semplice e diretto, come solo un missionario che è vissuto trent’anni in Africa può fare: “vieni, vedi e poi decidi”, ci ha detto, perché ora che abbiamo visto, che siamo entrati in contatto con quella realtà, non possiamo più essere indifferenti. Il continente nero e l’Etiopia hanno bisogno di noi, ma non di un nostro ritorno (almeno non nell’immediato): il mandato che Bernardo ci ha dato è stato quello di “dare voce” a questi popoli, essere attivi testimoni della loro semplicità, immensa accoglienza, forti tradizioni, incrollabile fede e bisogno di aiuto. Perché, ci ha detto, questo popolo non ha solamente bisogno di aiuti materiali ma anche e soprattutto di attenzione ed esempi.

Ed ora che siamo sul pullman del ritorno, dopo aver passato le ultime ventuno ore a viaggiare, in questa serata di pioggia (alla quale dopo venti giorni ci eravamo proprio disabituati), che già vede alcuni soffrire dei primi sintomi da “mal d’Africa”, non possiamo fare a meno di chiederci dove questo mandato ci porterà.
Buona Strada.

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