La storia di Medardo: «Io, in fuga dagli uomini che hanno ucciso mio padre»
«Mi sento solo. Mio padre è stato ucciso dagli stessi che hanno minacciato di morte anche me. Avevo un negozio a Bogotà, i gruppi paramilitari mi chiedevano il pizzo, i primi tempi riuscivo a pagare poi gli affari sono andati male. L'ultima richiesta a dicembre 2018. Non ce la facevo più, sono scappato. Ho una cugina, ma abita ad un'ora e mezza da qui, per me è lontano. Un altro cugino è in Colombia, ma là non posso tornare. E mia sorella vive negli Stati Uniti». Nonostante questo, Medardo Gomez, 64 anni, rifugiato in Ecuador da maggio 2019, si trova bene. Sa che non potrà mai tornare a casa, perché «il processo di pace non è positivo», spiega. «L'accordo prevedeva cinque senatori fissi per le Farc, indipendentemente dal risultato elettorale. Queste persone, che erano diventate parte del Congresso colombiano, hanno deciso di uscire. Chiaro segnale che l'accordo è fallito. I guerriglieri stanno tornando sulle montagne per riprendere in mano i fucili».
Medardo lavora come gelataio a Lago Agrio, è assistito dalla Caritas ed è in possesso della “tarjeta de comida”, una tessera alimentare rivolta a rifugiati e migranti, finanziata dal Programma Alimentare Mondiale (WFP) degli Stati Uniti, attraverso USAID: 25 dollari al mese per ricevere cibo.
Ecuador ed emigrazione, dai colombiani ai venezuelani: monsignor Celmo Lazzari parla dell'emergenza in America Latina
«Questa è veramente una terra di emigrazione», dice mons. Celmo Lazzari, giuseppino del Murialdo, pure lui immigrato perché di origini brasiliane, vescovo del vicariato apostolico di Sucumbíos, la provincia maggiormente interessata dall'emigrazione perché vicina alla frontiera con la Colombia, dalla quale è separata dal fiume San Miguel. «Negli anni Settanta c'erano tre popolazioni: i Cofanes, o Siones e i Secoyas. Poi, da altre province, sono arrivati i Kichwas e gli Shuars, ai quali il governo dell’Ecuador regalava 50 ettari di terra affinché disboscassero e fornissero braccia all’industria nascente del petrolio. Nel 1971 è stato scavato il primo pozzo; è allora che è nata Lago Agrio. Che è stato il loro “bene”, se intendiamo che ha incrementato l'occupazione, ma soprattutto il loro male, perché la zona è totalmente inquinata: suolo, acqua e aria. La città si è formata proprio con i migranti. L'emigrazione forzata però è un'altra cosa, ed è un'altra emergenza per la nostra Chiesa, l'Ecuador e le nazioni vicine».
Negli anni 2000 sono arrivati i colombiani, che vivevano la fase acuta della guerra civile, con l’aviazione militare che distruggeva le piantagioni di coca e la gente non sapeva più come vivere; nel 2013 il loro flusso si era un po' calmato. Ma, da due anni, l'Ecuador è interessato da un flusso costante di venezuelani che scappano da un Paese al collasso economico; hanno raggiunto i 300mila. «Anche se la maggior parte dei venezuelani non arriva qui, perché transita altrove e finisce a Ipiales-Tulcan, i numeri all'inizio, ci hanno comunque trovati impreparati e abbiamo dovuto improvvisare: pasti caldi, materassi. Poi abbiamo cercato di strutturarci, consapevoli che l'unica soluzione è la collaborazione nazionale e internazionale. Ci siamo messi in contatto con altre città che ricevono migranti, ed è nata la “Red Clamor”, una rete di organizzazioni della Chiesa cattolica di America Latina e Caraibi, che si occupa di immigrazione su iniziativa delle Caritas diocesane nazionali e dei vicariati. Al momento sono attive in tutto il sud America oltre 500 istituzioni (alberghi, mense, servizi di consulenza giuridica e sanitaria), che si occupano di accoglienza ed integrazione. C'è una collaborazione che fa sì che quando una persona parte verso un'altra città o un altro Paese, sa già dove andare. Nel nostro vicariato abbiamo aperto la Casa del Migrante “Buon Samaritano”, che offre vitto alloggio ad un massimo di 45 persone, per un’accoglienza temporanea di 3-5 giorni; un'altra mensa “Cinco Panes” è sostenuta dalle congregazioni religiose presenti nel vicariato. Ma i flussi non sono mai costanti, ci sono giorni in cui aumentano, altri in cui diminuiscono».
La media è di circa 200 arrivi al mese; fuggono dal loro Paese a causa dello scontro tra il governo di Nicolas Maduro e l’opposizione, ma soprattutto per il deteriorarsi della situazione economica», spiega Matteo Faregna, in servizio civile alla Caritas di Sucumbíos per conto della federazione di Ong cattoliche, Focsiv.
Un giorno eccezionale è stato il 25 agosto con un flusso inarrestabile: «Questo è accaduto perché molti si sono precipitati sapendo che il giorno successivo - 26 agosto 2019 - sarebbe entrata in vigore la legge con la quale lo Stato ecuadoriano ha reso obbligatorio per chi entra avere già un visto umanitario, in un'ottica di contenimento degli arrivi. Una politica già intrapresa da Cile e Perù», dice Davide Muradore, altro volontario Focsiv. «Si vede e si sente da parte dei governi latino-americani un progressivo chiudersi», aggiunge mons. Lazzari. «Tuttavia, ci sono 500 chilometri di frontiera con la Colombia, di notte i controlli sono più blandi, chi vorrà arrivare, arriverà, solo che sarà clandestino».
«Secondo i dati del Ministerio de Relaciones Exteriores y Movilidad Humana dell’Ecuador, nel mese di aprile 2019 sono entrati nella sola provincia di Sucumbíos, quasi 6.000 venezuelani», riprende Davide. «In tutto il 2017 il numero degli ingressi non era arrivato neanche a 1000. Questo incremento esponenziale degli arrivi è dovuto al peggioramento della crisi in Venezuela e al fatto che l’Ecuador si trovi nel mezzo della Ruta andina, quella rotta migratoria che venezuelani e colombiani seguono fino ad arrivare in Perù, Cile e Argentina, i principali paesi di destinazione. Io mi occupo di progetti agricoli con Cefa, ma una volta a settimana vado a dare una mano a Matteo in Caritas. Mentre prepariamo i pasti, entriamo in relazione con gli ospiti. C'è chi ci chiede informazioni geografiche ("Dove mi trovo?"), chi un cellulare per mandare un messaggio whatsapp o fare una chiamata; i bambini hanno voglia di giocare e distrarsi, gli adulti di ritrovare momenti di tranquillità prima di ripartire. Così, mentre diamo lezioni di italiano improvvisate ad una mamma diciassettenne, parliamo con lei dei suoi sogni per il futuro. Oppure ci capita di rimanere affascinati dalla determinazione di una nonna di 58 anni, che nell’insegnarci tutti i trucchi per cucinare delle arepas (tipiche focaccine venezuelane) perfette, ci parla dei suoi tre nipoti con cui è in viaggio da sola».
– Monsignor Lazzari, qual è l'atteggiamento della popolazione locale nei confronti degli immigrati?
«C'è accoglienza, ma oggi anche un po' di resistenza o sopportazione, perché - con il calo del prezzo del petrolio - la situazione economica della provincia è peggiorata. E quindi è frequente sentir dire: "Ci rubano il lavoro". C'è stato anche un aumento della criminalità, dovuto al fatto che al confine con la Colombia ci sono piantagioni di coca, che hanno portato prostituzione e violenza. E noi siamo ad appena venti chilometri. Ma io credo che l'Ecuador ce la farà».
Foto di Romina Gobbo