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giovedì 17 aprile 2025
 
Parole & Parola
 

Paolo VI e Alberione: stima e amicizia sigillate (anche) dai media

29/05/2020  Giornali, radio, Tv e cinema. Gli ideali condivisi alla radice del rapporto tra il Papa che ha fatto nascere Avvenire e il fondatore di Famiglia Cristiana. Per salvare le anime, tutte, occorre parlare il linguaggio del tempo senza farsene corrompere. L'analisi di Paolo Ruffini, Prefetto del dicastero per la comunicazione della Santa Sede

Quella di Giovanni Battista Montini e quella di Giacomo Alberione sono due vite parallele che si sono tuttavia incontrate. Diversamente da quanto accade nella rigidità senza anima della geometria e delle sue regole, si sono incrociate come solo può accadere alla storia delle persone, e fuse come solo può intuirsi meditando sulla comunione dei santi. Si sono incontrate e si sono riconosciute: l’una nell’altra, e tutte e due in qualcosa di più grande che le aveva pervase. Il Papa che sceglie per la sesta volta il nome dell’apostolo Paolo, e il fondatore della Pia Società San Paolo; il Papa figlio di un giornalista, amico esigente e critico dei giornalisti, e il presbitero missionario nel Nuovo Mondo delle comunicazioni sociali; il Papa che fa nascere Avvenire e il fondatore di Famiglia Cristiana. Entrambi sono figli del diciannovesimo secolo. Entrambi colsero subito i segni dei tempi che stavano cambiando. E lavorarono parallelamente a ricucire lo strappo che si stava e si sta ancora consumando fra la contemporaneità e il messaggio del Vangelo, fra la civiltà delle comunicazioni e la civiltà cristiana.

Se «la rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca» (Paolo VI, Evangelii nuntiandi, numero 20), come si fa a riportare il Vangelo nel mondo del cinema, della televisione, dei giornali. del Web? Come si fa a immergersi nella contemporaneità senza perdersi, ma al contrario riuscendo a farle cambiare prospettiva? La risposta di Paolo VI e di don Alberione è la stessa, e ci guida ancora oggi. Occorre parlare il linguaggio del tempo senza farsene corrompere. Serve la consapevolezza che non basta accudire le pecore rimaste nell’ovile, ma bisogna uscire a cercare le tante, troppe, uscite o mai nemmeno entrate in quello che poi non è un recinto ma lo spazio della vera libertà. «Il prete predica a un piccolo sparuto gregge, con chiese quasi vuote in molte regioni... Ci lasciano i templi, quando ce li lasciano! e si prendono le anime», scriveva don Giacomo Alberione sul finire del 1950. In anticipo sul Concilio.

 

E così anche Paolo VI, nel solco tracciato dai padri conciliari con l’Inter mirifica: «Chiediamo di fare ogni sforzo perché gli strumenti della comunicazione sociale, in un mondo che è in cerca, quasi a tastoni, della luce capace di liberarlo, annuncino sui tetti (cf Mt 10,27) il messaggio di Cristo salvatore, “via, verità e vita” (Gv 14,6)» (Paolo VI, 26 marzo 1968). Don Alberione era già stato ricevuto in privata udienza da Paolo VI il 10 aprile 1964. Ma il 28 giugno 1969, durante il secondo Capitolo generale della Società San Paolo, in una commovente udienza speciale ano cambiando. E lavorarono parallelamente a ricucire lo strappo che si stava e si sta ancora consumando fra la contemporaneità e il messaggio del  Vangelo, fra la civiltà delle comunicazioni e la civiltà cristiana.

«Chiediamo di fare ogni sforzo perché gli strumenti della comunicazione sociale, in un mondo che è in  cerca, quasi a tastoni, della luce capace di liberarlo, annuncino sui tetti (cf Mt 10,27) il messaggio di Cristo salvatore, “via, verità e vita” (Gv 14,6)» (Paolo VI, 26 marzo 1968). Don Alberione era già stato ricevuto in privata udienza da Paolo VI il 10 aprile 1964. Ma il 28 giugno 1969, durante il secondo Capitolo generale della Società San Paolo, in una commovente udienza speciale concessa alla Famiglia paolina, conferendogli la croce Pro Ecclesia et  Pontifìce, il Papa tracciò un profilo illuminante nella sua sinteticità di questo sacerdote umile, figlio di contadini, minuto, poco appariscente, discreto, piemontese terragno, che da anni ripeteva: «Le quattro pie donne che fanno la comunione ogni mattina, i quattro giovani che si radunano attorno al parroco ogni sera, non sono tutto il paese, non sono tutto il popolo», disse a Giovanni Battista Montini.

 «Molte altre pecorelle stanno fuori dall’ovile e non vengono al Pastore perché non lo conoscono, perché forse lo avversano e lo avversano perché non lo conoscono. Le anime bisogna salvarle tutte. Bisogna che il Pastore vada a loro: oggi a queste anime si va con la stampa». Disse allora Paolo VI: «Eccolo: umile, silenzioso, instancabile, sempre vigile, sempre raccolto nei suoi pensieri, che corrono dalla preghiera all’opera, sempre intento a scrutare i “segni dei tempi”, cioè le più geniali forme di arrivare alle anime... Il nostro don Alberione ha dato alla Chiesa nuovi strumenti per esprimersi, nuovi mezzi per dare vigore e ampiezza al suo apostolato, nuova capacità e nuova coscienza della validità e delle possibilità della sua missione nel mondo moderno e con i mezzi moderni».

Fu spesso solo, don Alberione, ma al suo capezzale, nella stanzetta dove si spense, a 87 anni, c’era Paolo VI, che lo aveva definito una meraviglia del nostro tempo, ad assisterlo. Così le due vite parallele si sono incontrate sul limitare dell’innito. Quasi a indicare che il cammino continua, che ogni cristiano, come san Paolo deve camminare nel suo tempo, non con la spada, ma con il rotolo che San Paolo tiene sul petto nell’affresco delle catacombe di Santa Domitilla. Specialmente i comunicatori. Sta a loro raccontare la Verità agli uomini del proprio tempo. Cercare la verità nel proprio tempo.

(il testo è stato pubblicato nello speciale di Famiglia Cristiana su Paolo VI nell'ottobre 2018)

 

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