Cittadini per diritto di sangue, cioè per discendenza, o perché si nasce
su un territorio? Parte da qui il dibattito sul cosiddetto “ius soli”,
latinorum da giuristi improvvisamente calato nei titoli dei giornali.
Tutto è iniziato con una dichiarazione di intenti a favore dello ius
soli del neoministro dell’integrazione Cecile Kyenge alla trasmissione di RaiTre In ½ ora, a fronte della quale si è scatenata una reazione contraria più o meno scomposta.
Il tema è certamente serio: chiama in causa il Paese che vogliamo
diventare, ma, a giudicare dalle modalità, si direbbe che il nostro sia
stato finora un dibattito “di scuola”, condotto dando per scontato che
le due alternative, sangue e suolo, siano secche, automatiche e prive di
possibili correttivi. La realtà invece è un po’ più articolata e
complessa.
Ma come funziona davvero oggi in Italia e come potrebbe funzionare, qualora si scegliesse la strada dello ius soli, l’acquisizione della cittadinanza italiana?
Secondo le leggi che disciplinano attualmente la cittadinanza (Legge
n.91/92 e Dpr n. 572 del 1993) oggi si è automaticamente italiani se si
nasce da un genitore italiano ovunque nel mondo. Oppure se si nasce in
Italia da ignoti, da apolidi, o da genitori che provengono da un Paese
che non dà la cittadinanza ai figli dei propri cittadini nati
all’estero. Tutti gli altri hanno la cittadinanza del Paese d’origine
dei genitori.
A meno che non vengano adottati o riconosciuti da un italiano o che non
diventi cittadino italiano il genitore con cui convivono.
Detto questo la cittadinanza si può acquisire, nei casi previsti per
cittadini stranieri di nascita. Hanno i requisiti: il figlio naturale
che venga riconosciuto, maggiorenne, dai genitori italiani.
Lo straniero nato in Italia e legalmente residente in Italia fino alla
maggiore età. Lo straniero, residente in Italia da almeno due anni al
compimento della maggiore età, che abbia un genitore o un nonno che sia
stato cittadino italiano per nascita.
E lo straniero che abbia assunto pubblico impiego alle dipendenze dello
Stato Italiano e che abbia un nonno o un genitore che sia stato
cittadino italiano per nascita.
In assenza di “radici” italiane si può venire naturalizzati. Per
matrimonio con un italiano/a. Oppure se si è stranieri residenti
legalmente in Italia da per periodi di diversa durata secondo i casi: 10
anni se si è extracomunitari, 4 se cittadini dell’Unione europea.
Tutto questo determina dei paradossi. Per esempio: fa
meno fatica a diventare cittadino italiano un adulto che abbia sempre
vissuto altrove, senza legami effettivi con il territorio italiano, se
ha un nonno che sia stato cittadino italiano per nascita (il caso dei
calciatori cosiddetti oriundi), rispetto a un ragazzo nato in Italia da
genitori stranieri, che abbia sempre vissuto qui e non sappia nulla del
suo Paese d’origine. Se al primo bastano tre anni di residenza legale in
Italia, il secondo deve aspettare la maggiore età.
E allora “ius soli”?
Se, come si è visto l’automatismo delle ius sanguinis determina dei
paradossi anche lo ius soli se applicato in automatico potrebbe
determinarne.
Come osserva il Presidente del Senato Pietro Grasso,
forte della sua esperienza di ex magistrato, se bastasse nascere in
Italia per essere considerati italiani, senza altri correttivi, il Paese
divenendo di fatto appetibile per le madri straniere in attesa,
potrebbe diventarlo “sinistramente” anche per i criminali che traggono
illeciti guadagni dalla tratta di esseri umani.
Altrettanto, nel rendere cittadini neonati che potrebbero rimanere in
Italia il tempo necessario a nascerne cittadini per poi essere
ritrasferiti altrove, lo ius soli da solo non risolverebbe il problema
dei figli di stranieri arrivati in Italia piccolissimi e cresciuti qui:
non essendo nati in Italia, pur parlando italiano e avendo frequentato
le nostre scuole, magari fin dalla prima infanzia, resterebbero
stranieri.
Anche per questo – e così si fa in molti Paesi – avanzano le proposte di
cosiddetto ius soli “temperato”, in cui si svincoli il legame
automatico dalla cittadinanza dei genitori per individuare al suo posto
un insieme di regole che facilitino il riconoscimento “dell’italianità”
del bambino nato o cresciuto in Italia, magari legandolo alla frequenza
della scuola. Un concetto che Andrea Riccardi ha definito “ius
culturae”, perché è la cultura che forma, anche più della nascita,
l’identità e l’appartenenza.
Ovviamente la mediazione non cancellerà, com’è giusto che sia, il
dibattito, semplicemente lo sposterà sulle regole di “temperamento”, che
alcuni vorranno più restrittive altri meno.