Il potere dei boss e quello dello Stato Ciotti: La Camorra esiste da 400 anni,
da oltre 150 Cosa Nostra, la ’ndrangheta
è solo poco più giovane. Non dimentico
certo l’impegno dei magistrati, delle forze
di polizia, di segmenti delle istituzioni
e di parte della società responsabile,
ma bisogna riconoscere che le mafie sono
ancora forti e radicate in tutta Italia.
Mi stupisco di chi si stupisce della loro
presenza al Nord. Già nel 1983 un delitto
di mafia uccide a Torino il magistrato
Bruno Caccia… Le mafie hanno radici al
Sud, ma i frutti, da tempo, li producono
al Nord. Oggi però hanno cambiato pelle.
Uccidono di meno, riciclano di più.
Con la loro capacità di anticipazione e
adattamento, hanno saputo inserirsi nei
meccanismi dell’economia “immateriale”,
aumentando i profitti e diminuendo
l’allarme sociale. Tutto questo è avvenuto
senza un’adeguata presa di coscienza
sociale e politica. Come te lo spieghi?
Bindi: Sulle molte facce delle mafie
occorre riflettere e indagare ancora a fondo.
Al Sud, dove i diritti fondamentali
delle persone sono tuttora compromessi,
dove non c’è lavoro, il sistema sanitario
non funziona, la scuola di qualità non è
garantita a tutti, e – come in Calabria in
maniera particolare – si vive un isolamento
dal resto del Paese, ci si convince
che il potere della mafia assicura ciò che
il potere dello Stato nega. L’arresto di un
mafioso non dà i risultati che ci aspetteremmo
perché le ragioni per le quali era
potente e aveva consenso sociale non
vengono meno. Al Nord la rimozione
del fenomeno ha accompagnato un’infiltrazione
profonda e pervasiva. Ci si è
ostinati a dire che il problema riguardava
le regioni meridionali senza capire
che il vero guadagno le mafie lo realizzano
al Nord. Sono state capaci di approfittare
dell’economia malata di questi anni,
mentre noi non ci siamo dati strumenti
adatti per contrastarle. Ci ostiniamo a
non capire che al pizzo o all’estorsione
corrispondono i silenzi delle banche, la
mancanza di una legislazione adeguata
sulla trasparenza e di contrasto dei paradisi
fiscali, del riciclaggio e dell’autoriciclaggio.
La verità, come dici tu don Ciotti,
è che loro sanno anticipare il cambiamento
più di noi. Tanto sanno restare legati
alle tradizioni anche arcaiche tanto
sanno stare nella modernità. Noi abbiamo
smarrito il senso della famiglia, della
terra, delle radici e non abbiamo gli strumenti
– o non vogliamo averli – per stare
dentro questa modernità.
E' la cultura che dà la sveglia alle coscienze
Ciotti: C’è alla base un grave problema
culturale. Nino Caponnetto ha detto:
«La mafia teme la scuola più che la giustizia,
l’istruzione taglia l’erba sotto i piedi
della cultura mafiosa». In questi anni sono
stati realizzati progetti di valore, ma
il dato impressionante è che abbiamo un
grande numero di analfabeti e un così alto
indice di dispersione scolastica da meritarci
il richiamo dell’Europa. Aveva ragione
da vendere, Caponnetto: il problema
delle mafie nasce innanzitutto da un
deficit di cultura e di responsabilità. La
loro espansione si avvale di coscienze addormentate
e indifferenti. Le organizzazioni
criminali hanno trovato inedite
sponde proprio nella “società dell’io” e
nel suo diffuso analfabetismo etico...
Sono diventate forti in una società culturalmente
depressa e politicamente debole,
incapace di promuovere l’impegno
per il bene comune.
Bindi: Condivido pienamente la tua
analisi. Vedo, andando in giro per il Paese,
che anche la lotta alla mafia viene vista
come “cosa loro”. Insieme c’è la sottovalutazione
di beni fondamentali come
il lavoro, l’istruzione, le politiche sociali
e la non sufficiente valorizzazione delle
risposte – che sono tantissime – della società
responsabile. Dovremmo far diventare
patrimonio di tutti lo straordinario
lavoro culturale e civile di queste persone,
che ci aiutano a far capire come ogni
volta che si affievolisce il valore della legalità
si apre un campo fertile di radicamento
dei poteri mafiosi. In un Paese dove
abbiamo evasione fiscale e corruzione
a livelli altissimi si finge di non sapere
che queste sono anticamera per la mafia.
Il primo impegno dovrebbe essere quello
di smontare il convincimento che l’illegalità
è conveniente. Al contrario produce
povertà, paura e violenza. Il rapporto
mafia politica va indagato, senza reticenze.
Non possiamo permettere, come
è accaduto, che un ministro della Repubblica
dica che con la mafia dobbiamo
convivere. È una resa inaccettabile alla
logica mafiosa. La nostra Commissione
affronterà questo nodo, avendo chiara la
distinzione tra i compiti del magistrato
e quelli del politico. Sicuramente va approvata
una legislazione diversa e più efficace
sul voto di scambio. Ma io penso
che la politica dovrebbe riuscire a emettere
un giudizio su sé stessa prima ancora
che emergano reati. Se so che fare il
sindaco nella Locride è diverso che fare il
sindaco in Toscana, so anche che c’è una
politica che in alcune zone del Paese con
il voto di scambio tiene la società sotto ricatto
e abitua la comunità a essere ricattata.
Se invece di rafforzarti nella tua dimensione
di cittadino riconoscendo i
tuoi diritti ti tengo legato ai miei favori
ti rendo permeabile ai poteri mafiosi. Da
questo punto di vista il codice etico antimafia
è da riprendere. La nostra Commissione
dovrebbe anche incalzare le forze
politiche perché prevedano un grande investimento
nella formazione di politici e
amministratori che si trovano nei territori
più esposti.
Aggiornare le misure sui beni confiscati
Ciotti: Disponiamo di strumenti di
contrasto efficaci, come la legge sulla
confisca dei beni e il loro uso sociale. La
106/95 salda la dimensione repressiva
con quella etica, culturale, economica.
Un bene confiscato e messo in grado di
funzionare non è solo uno smacco alle
mafie, ma è la prova che il bene e l’utile
possono e devono coincidere! Però occorre
un salto di qualità. Il prefetto Caruso,
che guida l’Agenzia nazionale, da tempo
sottolinea limiti e avanza proposte. C’è
un problema grave di organico e di risorse.
Ci sono meccanismi che rallentano
l’iter di confisca e di assegnazione. C’è il
problema delle aziende, di cui solo una
minima parte è riuscita a sopravvivere.
Problemi che chiedono risposte all’altezza,
perché quella dei beni confiscati è
una partita che non possiamo permetterci
di perdere.
Bindi: Sui beni confiscati si sono ottenuti
risultati importanti, però va fatto
un aggiornamento delle norme anche
perché se non riusciamo a renderli produttivi
facciamo aumentare il consenso
alle mafie. L’azienda sequestrata che fallisce
e licenzia diventa un esempio negativo, provoca le manifestazioni sotto
le Prefetture e gli attacchi ai magistrati
che si occupano di misure di prevenzione.
C’è da intervenire meglio nella prima
fase perché non passi molto tempo
dal sequestro alla confisca e perché si
usi una logica imprenditoriale. Se abbiamo
sequestrato un rudere meglio abbatterlo
e farci un parco per bambini, ma se
si sequestra un supermercato, come è stato
fatto a Palermo, visto che in questo
Paese esiste una legislazione di vantaggio
per la cooperazione si potrebbe chiedere
ad alcune cooperative di farsi carico
del bene e di riportarlo nell’economia legale,
per essere un servizio ai cittadini e
un luogo di buona occupazione. Bisogna
esigere che ci sia una reazione di più attori
e di più soggetti. Poi si deve istituire
l’albo degli amministratori dei beni confiscati,
per evitare, come purtroppo avviene,
che a gestire le imprese sequestrate
ci siano prestanome dei mafiosi. È un capitolo
importante sul quale contiamo di
ottenere subito dei risultati. Accanto c’è
il grande tema degli enti locali. Anche
qui la legislazione non è più adeguata. Bisognerebbe
rafforzare gli strumenti per
prevenire infiltrazioni e condizionamenti
criminali nelle amministrazioni. Quando
invece c’è lo scioglimento, bisognerebbe
nominare commissari a tempo pieno
che non siano semplici burocrati e abbiano
più poteri. E, soprattutto, si deve evitare
che i politici che hanno causato lo
scioglimento per infiltrazione mafiosa rivincano
le elezioni. Ancora, penso che
dovremo prendere in esame il ruolo dei
professionisti, senza demonizzare le singole
categorie, ma in collaborazione con
gli ordini perché è ormai evidente una
vasta zona grigia in cui operano notai,
medici, avvocati, commercialisti, consulenti
finanziari al servizio delle organizzazioni
criminali.
Anche la Chiesa deve dire come stanno le cose
Ciotti: Parlando d’impegno trasversale
contro le mafie, non si può fare a meno
di sottolineare il ruolo della Chiesa.
Come sacerdote, voglio rimarcare la
graduale ma palpabile presa di coscienza
circa la gravità del problema mafioso.
Ogni giorno incontro persone e realtà
che vivono il Vangelo senza sconti, saldando
la dimensione spirituale con l’impegno
sociale. E questo grazie anche
all’impulso di rinnovamento e alla lezione
di umiltà che viene dall’alto. L’ultimo
documento per la pace del Papa parla di
corruzione, tema su cui aveva scritto, ancora
da vescovo, un testo di grande profondità.
Ma gli stessi Benedetto XVI e Giovanni
Paolo II avevano sottolineato l’incompatibilità
tra mafie e Vangelo, a maggior
ragione se è il Vangelo strumentale,
tutto esteriore, dei boss. Tutto questo
non deve farci però dimenticare le ombre,
le complicità, gli eccessi di prudenza
di ieri ma anche, in parte, di oggi.
Bindi: Uno dei punti di forza che usa
la mafia è quello del rapporto con la dimensione
religiosa. Bisogna liberare la
Chiesa e il Vangelo dall’uso strumentale
che ne fa il potere mafioso e ritrovare la
forza liberante della radicalità cristiana.
Chi lo dice che il cristiano debba essere
rassegnato allo status quo? Di fronte al
male della mafia, della disuguaglianza,
della corruzione, della violenza, dello
sfruttamento la Chiesa, se tace, finisce
per diventare più connivente di altri.
Dobbiamo interrogarci su un punto: in
ogni comunità c’è una caserma dei carabinieri,
ma c’è anche una chiesa, e se mafia
è uguale a radicamento nel territorio,
chi è più radicato della comunità cristiana?
Quindi alla domanda: «Perché non
riusciamo a sconfiggere la mafia» c’è anche
la risposta: «Perché noi come cristiani
e come comunità cristiana non abbiamo
fatto abbastanza». Anche noi credenti
preferiamo non vedere, non chiamare
il male per nome. In fondo, il discorso
che si fa per la politica vale per la comunità
cristiana. È vero che non tutti noi politici
siamo Pio La Torre e non tutti noi
cristiani siamo don Puglisi.
La lotta alla corruzione e mafia è la vera povertà
Ciotti: A gennaio il Governo si è impegnato
a presentare un “pacchetto di norme
antimafia”. Mi auguro serva d’impulso
a risolvere questioni urgenti come
l’approvazione della modifica del reato
di voto di scambio e il rafforzamento della
legge sulla corruzione. O il contrasto
ai crimini ambientali: non è possibile
che reati così odiosi e dalle ricadute tanto
vaste non siano ancora inseriti nel codice
penale! Ma vorrei porre all’attenzione
il problema dei testimoni di giustizia
e dei familiari delle vittime. I familiari
chiedono che si riveda il limite del 1° gennaio
1961 perché ci sia il riconoscimento
di vittima di mafia. È una norma insensata,
perché la mafia ha ucciso, e molto, anche
prima. Poi di avere 150 ore riconosciute
e retribuite per l’impegno di testimonianza
nelle scuole e nelle carceri minorili.
Molti se lo accollano gratuitamente,
bruciando ferie e permessi. Per parte
loro, i testimoni di giustizia chiedono di
essere più sostenuti e accompagnati nelle
loro coraggiose scelte di vita. Ma sempre
più sono le persone che, pur non essendo
tecnicamente né testimoni né collaboratori
di giustizia, vogliono uscire da
circuiti mafiosi e criminali nei quali sono
vissute e dei quali si sentono ostaggi.
Aiutarle a costruire una speranza per sé
e i propri figli non è solo un dovere morale
e sociale, ma un segnale per indurre
anche altri a seguirle in quel difficile passo
verso la dignità e la libertà.
Bindi: Le persone che vogliono rompere
con l’ambiente mafioso devono avere
qualcuno che le accompagni e avere
garanzie di sicurezza e segretezza non
minori di quelle previste per i testimoni.
La Commissione e io ci impegneremo
sui punti indicati da te, don Ciotti. Ma ci
sono anche altre questioni. Penso in maniera
particolare alla capacità delle mafie
di entrare nell’economia legale creando
convenienze per gli operatori economici
e da questo punto di vista lo strumento
della “white list” non è adeguato.
L’Expo 2015 è una grande opportunità
per l’Italia ma anche per le organizzazioni
criminali. I rischi di infiltrazioni
negli appalti sono reali. La missione della
Commissione a Milano è stata rassicurante
ma la vigilanza deve continuare ad
essere alta. Segnalo infine due impegni
della Commissione: la Calabria e l’Europa.
Serve una legge speciale per la Calabria.
Una regione che è in una situazione
drammatica e che non può essere lasciata
a sé stessa e alla quale, al contrario, occorre
restituire attenzione e risorse che
le sono state negate o tolte. Infine dobbiamo
investire sul Semestre europeo.
Mi piacerebbe che si mettesse la lotta alle
mafie al primo posto, perché la crescita
sulla quale intendiamo puntare anche
in Europa o è all’insegna della legalità oppure
non è.