Change.org è una piattaforma online per le petizioni. Serve a mobilitare l'opinione pubblica sulle questioni più disparate. Qualche giorno fa Annamaria Testa, di professione pubblicitaria e dunque parte in causa perché il suo settore è tra quelli che più spesso ricorrono a parole straniere, ha lanciato una campagna dal titolo Dillo in italiano, contro il ricorso a parole inglesi in italiano anche quando non strettamente necessario. La campagna sta raccogliendo molte adesioni e innescando una discussione. Ecco il testo della sua petizione.
La lingua italiana è la quarta più studiata al mondo.
Oggi parole italiane portano con sé dappertutto la cucina, la musica,
il design, la cultura e lo spirito del nostro paese. Invitano ad
apprezzarlo, a conoscerlo meglio, a visitarlo.
Le lingue cambiano e vivono anche di scambi con altre lingue.
L’inglese ricalca molte parole italiane (manager viene dall’italiano maneggiare, discount
da scontare) e ne usa molte così come sono, da studio a mortadella, da
soprano a manifesto.
La stessa cosa fa l’italiano: molte parole
straniere, da computer a tram, da moquette a festival, da kitsch a
strudel, non hanno corrispondenti altrettanto semplici, efficaci e
diffusi. Privarci di queste parole per un malinteso desiderio di
“purezza della lingua” non avrebbe molto senso.
Ha invece senso che ci sforziamo di non sprecare il patrimonio di
cultura, di storia, di bellezza, di idee e di parole che, nella nostra
lingua, c’è già.
Ovviamente, ciascuno è libero di usare tutte le parole
di qualsiasi lingua come meglio crede, con l’unico limite del rispetto e
della decenza. Tuttavia, e non per obbligo ma per consapevolezza,
parlando italiano potremmo tutti cominciare a interrogarci sulle parole
che usiamo. A maggior ragione potrebbe farlo chi ha ruoli pubblici e
responsabilità più grandi.
Molti (spesso oscuri) termini inglesi che oggi inutilmente ricorrono
nei discorsi della politica e nei messaggi dell’amministrazione
pubblica, negli articoli e nei servizi giornalistici, nella
comunicazione delle imprese, hanno efficaci corrispondenti italiani.
Perché non scegliere quelli? Perché, per esempio, dire form quando si può dire modulo, jobs act quando si può dire legge sul lavoro, market share quando si può dire quota di mercato? Perché dire fashion invece di moda, e show invece di spettacolo?
Chiediamo all’Accademia della Crusca di farsi, forte del nostro
sostegno, portavoce e autorevole testimone di questa istanza presso il
governo, le amministrazioni pubbliche, i media, le imprese.
E di farlo
ricordando alcune ragioni per le quali scegliere termini italiani che
esistono e sono in uso è una scelta virtuosa.
1) Adoperare parole italiane aiuta a farsi capire da tutti. Rende i
discorsi più chiari ed efficaci. È un fatto di trasparenza e di
democrazia.
2) Per il buon uso della lingua, esempi autorevoli e buone pratiche quotidiane sono più efficaci di qualsiasi prescrizione.
3) La nostra lingua è un valore. Studiata e amata nel mondo, è un potente strumento di promozione del nostro paese.
4) Essere bilingui è un vantaggio. Ma non significa infarcire di
termini inglesi un discorso italiano, o viceversa. In un paese che parla
poco le lingue straniere questa non è la soluzione, ma è parte del
problema.
5) In itanglese è facile usare termini in modo goffo o scorretto, o a
sproposito. O sbagliare nel pronunciarli. Chi parla come mangia parla
meglio.
6) Da Dante a Galileo, da Leopardi a Fellini: la lingua italiana è la
specifica forma in cui si articolano il nostro pensiero e la nostra
creatività.
7) Se il nostro tessuto linguistico è robusto, tutelato e condiviso,
quando serve può essere arricchito, e non lacerato, anche
dall’inserzione di utili o evocativi termini non italiani.
8) L’italiano siamo tutti noi: gli italiani, forti della nostra
identità, consapevoli delle nostre radici, aperti verso il mondo.
Se siete d’accordo firmate su Change.org, parlatene, condividete in rete. E fatelo adesso.
Grazie!
Annamaria Testa