Mario Delpini ha il volto pacifico e l’eloquio pacato. È uomo di prudente realismo filtrato alla luce del Vangelo. Da quasi due anni è a capo della più grande diocesi italiana e una tra le maggiori del mondo. «Milano», dice subito, «ha un deficit di gioia. Con tutta la sua capacità di intraprendenza e di progettualità a volte non sa bene dove va e non è consapevole che l’esito ultimo dell’esistenza non è la morte ma la vita eterna». Negli ultimi mesi gran parte dell’agenda dell’arcivescovo è stata dedicata alla “questione europea”, quasi che il pastore della città forse più internazionale d’Italia sentisse il bisogno di richiamare tutti a quella che definisce «l’appartenenza ordinaria, quasi naturale» all’Unione: «Questa esasperazione del sovranismo mi sembra un’insistenza a fini elettorali più che l’interpretazione del sentimento autentico della gente».
L’Europa, dopo la fase fondativa, ha esaurito la spinta ideale delle origini con molti Paesi, soprattutto quelli dell’Est, che sotto la bandiera dell’unità hanno cercato di cavare pragmaticamente solo il proprio utile. Come se ne esce?
«Quello dei vantaggi economici è un aspetto rilevante, forse il più evidente, ma non è il solo. In questi anni l’Europa ha promosso anche una sensibilità comune ed elaborato una proposta politica di apertura e d’accoglienza che i Paesi dell’Est forse vedono come un elemento corrosivo della loro tradizione. D’altra parte, le istituzioni comunitarie hanno anche esasperato alcuni diritti individuali quasi ignorando l’importanza del tessuto sociale, della solidarietà, dei valori tradizionali che il cristianesimo ha seminato nel continente».
Nella disaffezione della gente verso le istituzioni europee ha inciso la gestione del fenomeno dell’immigrazione?
«Sicuramente questo è un problema affrontato e regolato male ed è stato ridotto a un insieme di slogan a fini elettorali. Il fenomeno è molto più complesso, più interessante e promettente, anche se contiene tante insidie e difficoltà. Il fatto di averlo semplificato e ridotto ad aspetti particolari non aiuta né a comprenderlo né a regolarlo né a comprenderne gli aspetti positivi. Però, in generale, bisogna guardare anche il bicchiere mezzo pieno».
Quale sarebbe?
«Mi sembra che nei cittadini dei Paesi membri sia cresciuta in questi anni una sorta di appartenenza ordinaria all’Europa, che nessuno mette in dubbio. Per molti è normale andare a fare un weekend a Parigi o l’Erasmus a Barcellona. Questa esasperazione del sovranismo mi sembra un’insistenza a fini elettorali più che l’interpretazione del sentimento della gente».
Cosa vorrebbe dire ai giovani che andranno a votare alle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo?
«Di andare anzitutto a votare perché questo significa prendere a cuore una causa e di votare persone che vogliono costruire l’Europa dei popoli e non persone che vogliono disfarla o ridurla a un comitato d’affari. E poi direi loro di coltivare amicizie che diffondano questo senso di appartenenza a una cultura, una storia, un insieme di valori. Infine, di studiare approfonditamente la storia perché non ci si può limitare ai titoli dei giornali. Non dimentichiamo che cento anni fa i popoli europei si ammazzavano in guerra tra di loro. Oggi si discute anche animatamente. Il patrimonio culturale è stato salvaguardato dalla pace mentre la guerra ha distrutto tutto».
Che impressione le ha fatto l’emozione collettiva che ha suscitato l’incendio di Notre-Dame?
«Mi ha colpito molto. Tante persone, di qualunque religione e appartenenza, si sono sentite personalmente coinvolte. Ho avuto la conferma che abbiamo molte cose in comune, che siamo un popolo con la vocazione alla condivisione e che questa unione è molto più evidente a livello culturale e valoriale, mentre quando si parla di interessi economici emergono più facilmente le divisioni e gli strappi».
Nel populismo, di cui oggi si parla tanto, ci sono anche istanze giuste e meritevoli di attenzione?
«La politica deve interpretare le esigenze del popolo e non deve essere espressione del palazzo o di gruppi d’affari. Il problema è come si esprime questa interpretazione dei bisogni della gente: assecondandone le emozioni più istintive e le paure più irrazionali o esercitando un dialogo su progetti comuni? Il populismo induce ad arroccarsi più che a sognare, coltivare speranze, a immaginare percorsi comuni per costruire una società più solidale e giusta».
Nel suo ultimo discorso di Sant’Ambrogio ha detto che siamo autorizzati a pensare. Che cosa la città di Milano e il suo arcivescovo hanno bisogno di pensare o di ripensare?
«Come arcivescovo penso che le cose più importanti che interrogano la mia riflessione siano quelle che riguardano la comunità cristiana. Il Sinodo minore sulla Chiesa dalle genti (concluso a novembre, ndr) ha posto un grande tema, ossia come immaginiamo la Chiesa di domani e cosa fare per costruire una Chiesa autenticamente cattolica che non sia la somma di Chiese nazionali. L’altro grande tema è offrire una proposta di speranza ai giovani e alla gente. Ai giovani bisogna parlare della vita come vocazione, spronarli a non rassegnarsi a vivere in un parcheggio o in una sorta di ingranaggio che produce tanto e scarta molto. Questo è un tema profondamente cristiano e mi chiedo come si faccia a comunicarlo oggi. A me sembra che la città di Milano con tutta la sua capacità di intraprendenza e progettualità non sappia bene dove va e non crede troppo che l’esito ultimo dell’esistenza non è la morte ma la vita eterna. Questo è un elemento che non rientra nella sensibilità contemporanea».
E la città?
«Vorrei che le istituzioni e il popolo s’interrogassero e s’adoperassero per una comunità dove la pratica del buon vicinato renda desiderabile vivere vicino agli altri. L’altro tema è il superamento delle forme più gravi di emarginazione e di povertà, che la ricchezza non si concentri solo in alcuni gruppi e luoghi».
A Milano, secondo le statistiche dell’Anagrafe, i matrimoni civili e religiosi sono in continuo calo. Perché ci si sposa sempre di meno?
«C’è una sorta di sfiducia in sé stessi e negli altri, la convivenza diventa un assestamento provvisorio dovuto a una specie di diffidenza sistematica verso l’istituzione del matrimonio. La coppia si isola e si ritiene più un esperimento che una scelta di vita. In prospettiva, senza legami familiari stabili, vedo quel destino di solitudine che già intristisce e affligge gran parte della città, soprattutto gli anziani, e la affliggerà sempre di più in futuro. L’aspetto economico, con lavori troppo precari e l’impossibilità di avere una casa, sono fattori non marginali del calo dei matrimoni e della scelta di convivere che peraltro ha forme molto diversificate».
Che impressione le fanno gli attacchi a papa Francesco anche da parte di cardinali e uomini di Chiesa?
«Lo trovo incomprensibile. Penso che tra il popolo di Dio il Papa sia benvoluto e amato. Certo, se nel magistero del Pontefice si isola la frase “dobbiamo accogliere i migranti”, ecco che anche alcuni cattolici dicono che il Papa è ossessionato dall’accoglienza e se quest’accoglienza dei migranti viene dipinta da alcune forze politiche come un pericolo per la civiltà, allora viene spontaneo dire che questo Papa non vuole il bene dell’Italia e dell’Europa perché è ossessionato dell’idea di accoglienza. È un cortocircuito. A me sembra che papa Francesco abbia invece una visione più ampia dell’accoglienza e che la sua idea di ecologia integrale sia molto più promettente di certe espressioni meschine ed emotivamente caricate».