Che lo sport sia un’opera d’arte in fondo è un fatto. Chi lo ama, al netto delle distorsioni che sono tante, gli si avvicina soprattutto per godere della bellezza pura, alla ricerca del gesto perfetto, proibitivo per la stragrande maggioranza dei corpi, appena adatti – quando non troppo maldestri anche per quelli – ai movimenti ordinari della quotidianità.
È la bellezza pura dei suoi goal tramandata da youtube che porta i ragazzini a Milano a riverire, - come si fa con un classico maledetto – un Maradona 53 enne imbolsito e imborghesito, ma sempre esagerato, anche in quell'aria poco credibile da vecchio saggio che si dà, strizzato nella grisaglia e in una sala troppo piccola per contenere tanto sconsiderato amore.
È la bellezza che ci tiene avvinti al calcio e allo sport tutto, uno spettacolo, che ha senso solo nell’incertezza del risultato, nonostante ci venga ricordato ogni giorno che è alto il rischio che lo spettacolo sia taroccato.
È un’attrazione ogni giorno più irrazionale, in questo, la nostra, ma alla fine restiamo stregati dal gesto perfetto che nessun trucco può fabbricare da solo. Anche per questo non sorprende che lo sport e la cultura, che da sempre si guardano reciprocamente in cagnesco checché se ne dica, trovino di tanto in tanto territori comuni in cui misurarsi, magari a teatro – da sempre luogo di sperimentazioni ardite, creatrici di imprevedibili e suggestivi percorsi.
Sta succedendo in questi giorni a Milano con La pugna e la pipa, fino al 27 al Teatro Parenti. La pugna è quella combattuta in salita, dall’Italia al Mondiale 1982 e la pipa, ovviamente, è la pipa di Mister Bearzot, artisticamente parlando, seconda sola a quella dipinta da Magritt. Lo spettacolo, ironico e suggestivo, fatto soprattutto di parole e di una scena minimalista ma efficace, ci reimmerge per un’ora abbondante nel clima di quei giorni, con tutti gli eccessi del caso, che ci viene restituito accelerato, come quando s’usavano i nastri e si premeva il tasto "avanti veloce", o se preferite come nelle comiche di Ridolini. Non perché sul palco ci si muova così, ma perché il motore del testo scritto da Alessandro Pilloni sono le cronache di quegli anni, citate alla lettera, cucite le une sulle altre. E quel mese di cronaca travasato, con perizia di scelte, in 70 minuti di spettacolo rende benissimo lo scarto tra la critica feroce delle prime partite e il progressivo saltare sul carro dei vincitori man mano che l’Italia progrediva nel Mondiale. L'effetto comico, assicurato, è amplificato dalla colonna sonora del tempo, che passa con disinvoltura dalla voce graffiata di Vasco alla sdolcinata colonna sonora del film Il tempo delle mele.
Non è l'unico incontro tra sport e palcoscenico, un altro, non meno ardito, perché ci sono di mezzo le donne, altra metà a lungo negletta dello sport, vivrà il 30 ottobre a Torino, alla Piazza dei Mestieri. Va in scena Campionissime, scritto da Gian Paolo Ormezzano, che sarà anche voce fuori campo. Tre attrici recitano sei monologhi che sono altrettante storie di donne dello sport, colte nel loro lato oscuro. La mamma ateniese che si vestì da uomo per vedere suo figlio in gara nei primi Giochi, vietati alle spettatrici, e rischiò una condanna a morte. La controfigura acquatica di Jane di Tarzan, madre di Don Schollander, quattro ori nel nuoto a Tokio 1964. Sonia Henie leggenda del pattinaggio su ghiaccio, al punto da finire omaggiata persino nelle strisce di Charles Schulz e attrice di Hollywood. Karen Muir, nuotatrice sudafricana bianca «“uccisa”- come scrive Ormezzano - nella carriera dall'apartheid studiato dal suo Paese contro i neri»: avrebbe pototuto vincere le Olimpiadi ma non vi ha mai partecipato a causa del bando inflitto al Sudafrica per la discriminazione razziale. Stella Walsh che vinse l'oro dei 100 piani per la Polonia a Los Angeles 1932, morì da statunitense per pallottola vagante in una rapina, venne scoperta uomo. Florence Griffith morta stranamente a 39 anni dopo avere sbalordito il mondo dello sprint.
Se a Milano, sui filmati che tutti ricordano, prevalgono parole e gesti, a Torino le immagini, sconosciute ai più perché perlopiù lontanissime dalla memoria, hanno un peso significativo, anche artistico, in senso proprio, laddove lo sport è arte, ma metaforica.