Segna una svolta il lungo discorso di papa Francesco alla Chiesa italiana. O meglio, un ritorno. Un ritorno al Concilio, alle radici, alla fede, al Vangelo. La fine di quella tentazione che già il cardinale Giulio Bevilacqua, amico e maestro di Paolo VI, aveva denunciato fin dagli anni 50: «La Chiesa rischia di trasformarsi da mistero di comunione e di salvezza, da “piccolo resto” di poveri che ripongono in Gesù di Nazareth la speranza della loro salvezza, in superorganizzazione mondana che ripone la sua fiducia nei mezzi materiali, nella superorganizzazione clericale, “volontà di dominio in veste sacrale”».
Poi venne il Vaticano II e sembrò che tutto potesse cambiare. Ma i Concili hanno tempi lunghi per essere recepiti e messi in pratica, come ha ricordato lo stesso cardinale Schonborn nel recente Sinodo. Le forze che in questi decenni hanno remato contro quelle aperture sono state numerose e quasi dominanti. Ma è bastato un Papa venuto dall’altra parte del mondo, da quell’America latina che, con Medellin (Colombia, 1968) e Puebla (Messico, 1979), per prima aveva fatto proprie le conclusioni conciliari e capito che l’opzione preferenziale per i poveri era il cuore del Vangelo e dunque della Chiesa, per rimettere dritta la barra e ricominciare il cammino. Traducendo in pratica il Concilio, prima che parlandone: il metodo sinodale, il pastore che cammina con la gente, l’ascolto del popolo di Dio, le beatitudini come cartina di tornasole del proprio essere cristiani, il dialogo con il mondo, con le altre fedi, con tutti gli uomini di buona volontà.
Il Papa a
Firenze ha rimesso in moto tutto questo, spazzando via di un colpo gli scismi sommersi e gli autoritarismi, le critiche di chi pensa a una Chiesa troppo potente e di chi, al contrario, la sente troppo poco significativa.
La forza con cui il Papa è più volte tornato sull’ossessione del potere e della ricchezza dice di una preoccupazione che è quella di un pastore che sa quanto lontano dal Vangelo rischia di andare una Chiesa che conta solo sulle sue strutture e sulle sue forze senza ricordarsi che la vera forza è nella debolezza di Gesù.
Il Papa che parla senza accuse, ma con molta concretezza, dà un compito preciso alla Chiesa italiana, un compito che, se attuato, porterà davvero nel cuore di ogni pezzo di questo Paese la creatività evangelica più volte evocata: «In ogni comunità, in ogni parrocchia e istituzione, in ogni Diocesi e circoscrizione, in ogni Regione, cercate di avviare, in modo sinodale, un approfondimento della
Evangelii gaudium», ha chiesto il Papa, «per trarre da essa criteri pratici e per attuare le sue disposizioni, soprattutto sulle tre quattro priorità che avete individuato in questo convegno. Sono sicuro della vostra capacità di mettervi in movimento creativo per concretizzare questo studio. Ne sono sicuro perché siete una Chiesa adulta, antichissima nella fede, solida nelle radici e ampia nei frutti. Perciò siate creativi nell’esprimere quel genio che i vostri grandi, da Dante a Michelangelo, hanno espresso in maniera ineguagliabile. Credete al genio del cristianesimo italiano, che non è patrimonio né di singoli né di una élite, ma della comunità, del popolo di questo straordinario Paese».
Potremo avere così, davvero, la Chiesa «inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti», la Chiesa «lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza», che non cammina da sola, ma «che costruisce insieme, fa progetti, non da sola, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà». Una Chiesa che non fa crociate per imporre le sue volontà, ma che sa camminare con delicatezza nelle stesse strade degli uomini e delle donne di oggi per riscoprire quel nuovo umanesimo, quel volto di Gesù che è il volto di ciascuno di noi.