In questo nostro Paese di memoria corta, sarebbeutile rievocare almeno due momenti. Riguardano entrambi il presidente Giorgio Napolitano. Il primo è il messaggio televisivo di fine 2012. Il secondo, quel misto di malumoree allarme con cui il Colle, poche settimane più tardi, accolse la candidatura di Mario Monti alle elezioni politiche. Il capo dello Stato aveva ben chiaro il nesso fra i guai del momento e quanto di peggio poteva derivarne. Dopo il meritorio inizio d’opera, il Governo Monti si era perso fra interventi mancati o sbagliati, scarsa o nulla attenzione alla ripresa economica, tasse e tagli che lo stesso Napolitano definì «indiscriminati e automatici». Ossia, una vera e propria crisi sociale che devastava l’economia, alimentava gli squilibri e richiedeva «fin d’ora», subito, «uno sforzo di risanamento».
Riferendosi poi in televisione alla campagna elettorale che stava per aprirsi, il Presidente elencava con puntiglio tutti i motivi di discredito di una classe politica che oltre agli scandali e agli abusi di potere non aveva neanche saputo riformare il Porcellum, la legge elettorale che ancora ci ritroviamo. In parallelo, sugli stessi temi, si leggeva sui giornali che delle due l’una: o si cambiava appunto “subito”, o si apriva Montecitorio a un centinaio di deputati grillini. Cose queste che dal Quirinale non si potevano dire ma che là ovviamente si pensavano.
Giorgio Napolitano aveva già dimostrato
ad abundantiam le sue doti di
fine politico, costretto a fungere da stella
polare contro gli altrui errori di percorso.
Dopo la caduta di Silvio Berlusconi
si era inventato una doppia promozione
per Mario Monti, prima senatore
a vita e quindi guida del Governo. Come
si è visto, non nascondeva le sue critiche
alla gestione ministeriale.
Però
giudicava ancora Monti come un uomo
di riserva, una “risorsa”, sia pure provvisoria,
in vista della prevedibile inconciliabilità
fra i tre gruppi che sarebbero
emersi dalle elezioni di febbraio. Con la
sua “salita” in campo (rivelatasi una
brutale discesa), il senatore Monti spariva
dal gioco.
E oggi se ne vedono le conseguenze.
Anche nel gioco per il Colle.
Questa funzione di alto raccordo, di
faro per naviganti alla deriva, Napolitano
continua tuttora a svolgerla. Già
nei primi anni di presidenza, malgrado
le tensioni fra destra e sinistra, sia i partiti
sia i cittadini sapevano di potersi riferire
al Colle come fonte di saggezza
politica. Non senza stupore, in molti,
per l’evoluzione di quest’uomo noto
per il suo cauto riformismo ma pur sempre
cresciuto nel Pci di Togliatti. Mai però
come adesso, a fine mandato, preoccupa
l’addio di uno statista che davvero
si è rivelato al di sopra delle parti.
Superfluo ricordare come da varie
fonti si sia prospettata una sua conferma
– almeno parziale – al Quirinale, e
il rifiuto di Napolitano per ragioni di
età abbia appena attenuato la pressione.
Il fatto è che, per tutta una serie di
motivi, nessuno dei nomi fin qui avanzati
per il ricambio, pur stimabili, offre
analoghe garanzie. Se in Parlamento si
sbaglierà scelta, decadranno le prospettive
di pacificazione nazionale.
Per questo, proprio a fine mandato,
stonano le critiche a Napolitano per la
nomina dei dieci “saggi”, incaricati di
concludere entro pochi giorni.
Se è vero
che i tecnici non si sono finora coperti
di gloria, non è meno vero che i
partiti da soli si sono mostrati totalmente
incapaci di offrire uno sbocco.
Uno stallo simile non l’avevamo mai
vissuto, fra politici che non sanno fare
il loro mestiere, imprenditori che arrivano
al suicidio, lavoratori buttati in
strada, pensionati in angoscia per il futuro.
E ora se ne va anche Napolitano.
Certo, se dandosi da solo una scadenza
ci ripensasse…
Giorgio Vecchiato
Sette anni vissuti pericolosamente.
Ma anche sette anni in cui il
Quirinale ha costituito un punto
fermo in un Paese in continua transizione,
non senza momenti in cui i poteri
della Repubblica parevano l’uno contro
l’altro armati e in Parlamento il
caos sembrava dettare legge.
In questo
contesto Giorgio Napolitano, eletto al
quarto scrutinio presidente della Repubblica
il 10 maggio 2006, a 80 anni di
età, si è assunto una missione difficilissima,
senza precedenti: rappresentare
un punto di equilibrio tra istituzioni e
soprattutto parlare a un Paese spaesato,
sempre meno unito.
Napolitano ha navigato lungo questi
anni di smarrimento con tenacia e
sobrietà. La sua famiglia non è stata
da meno. Gli inizi del settennato sono
stati felpati. E anche il suo stile di vita,
a parte le incombenze del ruolo, non è
cambiato: sveglia alle sette, colazione,
lettura dei giornali. Lavoro dalle nove
all’una, pranzo, breve riposo, di nuovo
lavoro fino all’ora di cena.
Poi, la sera,
quando non ci sono impegni o viaggi,
lettura con musica classica di sottofondo,
o il Dvd di un film, o un talk show
politico in Tv, ma solo in prima serata.
Il suo ruolo è andato aumentando
man mano che la compattezza del sistema
politico veniva meno. Napolitano
non è mai stato interventista come
certi suoi predecessori (Gronchi, Pertini,
Cossiga o Scalfaro) ma non è mai stato
nemmeno un notaio istituzionale.
Ha preferito esercitare la sua “persuasione
morale” man mano che gli venivano
sottoposte le leggi da promulgare.
Forte di 47 anni al Parlamento e della conoscenza della Costituzione, «utilizzata
come grande terreno di connessione
politica e civile», spiega Stefano Folli,
decano dei commentatori politici, molto
attento alle evoluzioni del Colle.
Napolitano ha difeso le prerogative
delle Camere quando il Governo varava
troppi decreti e ha continuato il “patriottismo
costituzionale” avviato dal
suo predecessore Carlo Azeglio Ciampi,
facendo uno sforzo enorme per ricomporre
il federalismo all’interno del quadro
istituzionale, liberandolo dalle pulsioni
secessioniste.
Un grande sforzo è
stato dedicato al superamento del “passato
che non passa” della stagione degli
anni di piombo. Il 9 maggio 2009, durante
la seconda Giornata della memoria
per le vittime del terrorismo, ha invitato
a «scongiurare ogni rischio di rimozione
» e ha fortemente voluto che Licia
Rognini, vedova di Giuseppe Pinelli, e
Gemma Capra, vedova del commissario
Luigi Calabresi, ci fossero e si stringessero
la mano.
In questi sette anni le critiche al Colle
non sono mancate, da destra e da sinistra.
Come quando, nell’agosto 2008,
Napolitano promulgò (pur accompagnandolo
da una nota di contrarietà) il
lodo Alfano, la legge che riproponeva
la sospensione dei procedimenti penali
per le quattro più alte cariche dello Stato,
poi bocciato dalla Consulta.
Ma il suo capolavoro politico, per il
quale verrà ricordato nella storia, è la
gestione della crisi di Governo dell’autunno
2011, quando il premier Berlusconi,
consapevole di non avere una
maggioranza adeguata (era andato sotto
sul rendiconto generale dello Stato),
salì al Colle per presentare le dimissioni,
mentre nei mercati infuriava un attacco
speculativo senza precedenti e l’Italia rischiava
la bancarotta. Il capo dello Stato,
dopo averlo nominato senatore a vita,
incarica Mario Monti di formare un
Governo tecnico. «Napolitano», ha scritto
Paolo Franchi, nella sua biografia dedicata
al presidente della Repubblica
(Rizzoli) «è riuscito a evitare che l’Italia
precipitasse nel baratro, senza esorbitare
dal proprio ruolo, difendendo maestosamente
le istituzioni». “Re Giorgio” titolò
il New York Times. Anche quell’operazione
incontrò l’approvazione dei cittadini
italiani, se è vero che il suo indice
di gradimento non è mai sceso sotto
l’80 per cento. Il resto è storia di ieri.
Francesco Anfossi
«Il Quirinale? Non me lo aspettavo,
vedevo la mia vita su binari
più lievi». Così aveva detto Clio
Napolitano rievocando l’elezione di suo
marito a presidente della Repubblica. Come
previsto, i binari quirinalizi non devono
essere stati tanto lievi per una
donna abituata all’indipendenza, che
da allora sarebbe stata soggetta agli obblighi
istituzionali del cerimoniale che
circonda la più alta carica dello Stato.
I giornali si chiedevano che tipo di
prima signora della Repubblica sarebbe
stata: sempre assente come Carla Pertini,
che al palazzo non mise mai piede
e continuò imperterrita a fare il suo lavoro
di psicologa? O sempre presente e
un po’ impicciona come Franca Ciampi?
La risposta più azzeccata fu della deputata
Livia Turco, che la conosceva bene:
«Sarà un inedito mix tra lei molto
autonoma e loro due molto coppia».
Clio Napolitano, nata Bittoni, compirà
il 10 novembre 79 anni, nove meno
del marito. La coppia presidenziale ha
festeggiato il cinquantesimo anniversario
di matrimonio nel 2009, insieme ai
due figli, Giovanni e Giulio, e ai due nipoti,
Sofia e Simone. Laureata in Giurisprudenza
a 24 anni, Clio Napolitano
ha esercitato la professione di avvocato
specializzandosi in Diritto del lavoro e
poi dirigendo l’Ufficio legislativo della
Lega delle cooperative. Incarico che lasciò,
per scrupoli di correttezza, quando
Giorgio Napolitano divenne presidente
della Camera: «Non mi sembrava
il caso di continuare, visto che nel mio
ruolo professionale avevo come interlocutori
i presidenti delle commissioni
parlamentari».
Da allora, è stata sempre defilata. I
giornali si sono occupati di lei in due
occasioni, una ammirevole, l’altra tragica.
La prima fu quando venne fotografata,
lo scorso settembre, in fila con
tanti altri per acquistare il biglietto alle
Scuderie del Quirinale dove erano
esposti i capolavori del pittore olandese
Jan Vermeer: fatto davvero raro nel
Paese in cui i personaggi “importanti”
entrano gratis dappertutto, a teatro come
allo stadio.
L’occasione tragica risale
al 28 giugno 2007: mentre, come al
solito, se ne andava in giro da sola,
venne investita sulle strisce pedonali
davanti a un’uscita secondaria del Quirinale;
fratture della tibia sinistra e
dell’omero destro, doppia operazione
all’ospedale del Celio e poi i gessi per
diverse settimane.
La sua foto pubblica più recente risale
alla Messa di inaugurazione del pontificato
di papa Francesco: seduta al primo
banco, indossa l’abito nero d’obbligo,
però ravvivato da un lunghissimo
scialle azzurro. È lo stile di Clio Napolitano,
che obbedisce all’etichetta istituzionale
ma riesce a moderarla con il suo
personale tocco di autonomia.
Franca Zambonini
Per molti anni si è detto che il Presidente della Repubblica, in Italia, conta poco e comanda ancora meno. E non era vero. Stava lì a dimostrarlo una corposa lista di presidenti di forte preparazione politica e, spesso, di ancor più forte personalità: da Pertini a Cossiga, da Ciampi a Scalfaro. E' indubbio, però, che la crisi sempre più profonda dei partiti tradizionali, e del sistema politico che essi hanno incarnato, assegna al Presidente un ruolo sempre più ampio, delicato e influente.
Nel dirlo, il pensiero ovviamente corre al settennato appena concluso, quello di Giorgio Napolitano, segnato da una funzione di "supplenza politica" evidente a tutti gli italiani, che infatti hanno in larga parte apprezzato, se non sempre condiviso. Napolitano non ha mai smesso di essere il garante super partes delle istituzioni ma in molte occasioni delicate ha iniettato nel dibattito politico un qualcosa in più in termini di fantasia, energia e attaccamento all'interesse nazionale che è risultato decisivo per la stabilità del sistema.
Napolitano, però, non è stato il primo, proprio perché la crisi dei partiti non è cominciata con la sua presidenza. Pensiamo a Cossiga e alle sue "picconate" al sistema politico della Prima Repubblica, ancora inchiodato agli equilibrii della Guerra Fredda. A Scalfaro, che affrontò il crollo appunto di quella Repubblica e l'irruzione sulla scena del berlusconismo più rampante. A Ciampi, con l'ingresso dell'Italia nell'euro e l'invenzione preziosa del nuovo patriottismo.
In questi anni, però, la perdita di credibilità dei partiti si è fatta sempre più rapida, spalancando infine la strada a un movimento anti-sistema come quello guidato da Grillo e Casaleggio. Proprio quanto sta avvenendo in queste ore, con la farsa delle Quirinarie, dimostra quanto sia delicata questa tornata delle elezioni presidenziali. Il Presidente, come prevede la Costituzione, è il garante degli equilibrii del sistema istituzionale: che può e deve essere riformato ma che, per il bene degli italiani, non può e non deve essere scardinato.
Il Presidente, quindi, deve (non può, deve) essere espressione del sistema, di cui deve a propria volta essere un fine conoscitore e interprete. Non deve (non solo non può, non deve) essere scelto in quella che solitamente viene definita "società civile", soprattutto nell'accezione corrente di società che con la politica non ha nulla a che fare. Con una crisi di sistema come quella in corso, il Presidente deve essere "politico" nel senso più ampio e nobile del termine. Una brava persona, uno stimabile cittadino non basta, e forse nemmeno serve.
Fulvio Scaglione
Vengo anch’io? No, tu no. È una delle regole ferree dell’elezione al Quirinale. Perché nominare il presidente della Repubblica nel Paese di Machiavelli è come giocare a ciapanò. Si entra presidente e si esce bastonati. Il re è nudo, soprattutto se non diventa re. Così, il ruolo col minore potere reale finisce per essere tanto ambìto quanto sorprendente. Non a caso, i grandi leader della prima Repubblica hanno cozzato sempre contro il muro dell’elezione.
Alcide De Gasperi, tanto per dire, rifiutava la proposta: «Al Quirinale mi sentirei morto». Lapidario e definitivo. E anche gli altri cavalli di razza in casa Dc hanno rinunciato, magari a causa di sonore batoste. Da Moro ad Andreotti a Fanfani, niet, niente da fare. Perché, voto segreto regnante, quando si tratta di eleggere il presidente della Repubblica emergono i peones, che vendicano il loro ruolo gregario con operazioni di killeraggio scientifico e cinico.
Che le cose siano sempre andate così, lo dimostrano anche gli altri partiti: nel Psi, per esempio, Pietro Nenni avrebbe fatto volentieri il capo dello Stato, ma fu trombato e sacrificato più volte in nome di altri giochi, segreti o meno. E che dire di La Malfa, Spadolini, Malagodi, Terracini, Amendola? Zero tituli, direbbe qualcuno. Così, alla fine, il presidente viene eletto sulla base di un continuo spariglio bizantino fatto di accordi sottobanco, complotti notturni, vendette personali, miracolose alleanze di un giorno che, per chi vince, dura sette anni.
Solo due volte, con Francesco Cossiga e Carlo Azeglio Ciampi, si è scelto l’uomo direttamente al primo scrutinio.
Uomo o donne, questo o quella pari non sono
L’uomo, appunto. Quanto alle donne, battute in partenza icone del Parlamento come
Nilde Iotti e
Tina Anselmi, sprecate figure di rilievo ma senza forze come
Camilla Cederna o
Rosa Russo Iervolino, la sola
Emma Bonino, nel 1999, mostrando le proprie attitudini al gioco diretto, si autocandidò con tanto di firme da parte di sostenitori (per lo più radicali, certo) sparsi per il Paese.
Beh, venne scartata in modo solenne quanto un’elezione. Da allora, il suo nome si aggira come un fantasma nei corridoi del Parlamento, neanche fosse l’unica rappresentante di genere femminile su cui puntare occhi presidenziali. Pigrizia maschile? Conformismo? Scarsa fantasia? Chissà.
Però
Bonino continua a piacere a molti, tanto da far sorgere il sospetto di una palese candidatura a perdere per arrivare alla fatidica quarta votazione, a partire dalla quale non sono più necessari i due terzi dei voti ma basta la maggioranza semplice per poter pomposamente dire: tu, proprio tu, sarai presidente. No, non tu Emma, lo sai...
E, sempre a conferma del Paese più simpaticamente folle del mondo, va rammentato che il primo presidente della Repubblica, dopo 84 anni di Regno, fu l’avvocato napoletano
Enrico De Nicola, nientemeno che un convinto monarchico.
Il quale non solo rimase al Colle per il periodo “provvisorio”, dal 28 giugno 1946 al 31 dicembre 1947, ma appose la firma sulla nuova Carta costituzionale, impiegando otto minuti, così dicono i cronisti dell’epoca, e divenne ufficialmente primo presidente della Repubblica per qualche mese, dal 1° gennaio all’11 maggio 1948.
Carlo Sforza, il conte repubblicano
Ma perché i nostri parlamentari scelsero un monarchico per guidare la Repubblica? Perché, disse Giulio Andreotti, era «al di sopra del bene e del male». Più prosaicamente, molti candidarono
Benedetto Croce. Anche le sinistre. Ma il filosofo capì l’antifona e dichiarò che non era d’accordo sulla sua candidatura perché proveniente da socialisti e comunisti. Così, i voti andarono all’avvocato monarchico.
Che non era proprio felice, a dire il vero, ma poi visse il periodo presidenziale con senso di responsabilità tale da rivoltare il cappotto consunto di fronte a ospiti di riguardo, con orgoglio di quella povertà italiana postbellica. Non volle mai lo stipendio dallo Stato, e pagava di tasca sua anche le telefonate che faceva.
L’avvocato detiene un record imbattibile: è stato il primo presidente e anche il primo trombato. 1948: De Nicola spera invano in una rielezione. Ma i partiti confabulano, tramano, si accordano su altri nomi. A riprova del pateracchio passeggero tra monarchia e repubblica, a De Nicola deve succedere, secondo gli intenti politici, addirittura un conte,
Carlo Sforza, già ministro degli Esteri nel terzo governo di De Gasperi. Oltreché conte, Sforza è un tecnico (c’erano già allora) e, a complicarsi la vita, di area… repubblicana. Insomma: quando i parlamentari lo incontrano, si scappellano, caro conte di qua, esimio conte di là, promettendogli il voto.
Salvo, poi, ripensarci, complici alcune voci messe in giro a bella posta che dipingono il candidato repubblicano alla stregua di un assatanato Don Giovanni. Altri tempi, vero?
E, comunque, la giovanissima Italia repubblicana fatica a liberarsi dei suoi trascorsi monarchici. Fallita la candidatura di Sforza, ci si muove verso un economista liberale, Luigi Einaudi che, quando lo sa - ma guarda un po’ - risponde: «Veramente io al referendum ho votato monarchia». E che sarà mai, pensano De Gasperi e gli altri democristiani, che si danno da fare e riescono a far eleggere Einaudi con 518 voti su 451 necessari. L’economista piemontese entrò per la prima volta al Quirinale con la sua auto privata, come il predecessore. E quando invitava qualcuno a pranzo, tagliando mezza pera o mezza mela, offriva l’altra metà all’ospite, per non sprecare e buttare ciò che altrimenti sarebbe avanzato.
Il Colle non s'addice a Cesare
Nel 1955, per il nuovo settennato, il trombato eccellente è
Cesare Merzagora, presidente del Senato dal 1953. Vi sarebbe rimasto come seconda carica dello Stato addirittura fino al 1967, quasi a ripagarlo della tremenda delusione, avvenuta per mano - e come ti sbagli? - dei suoi amici democristiani.
Il fatto è che l’elezione del Capo dello Stato è sempre vissuta come un crocevia di aspirazioni e rivendicazioni programmatiche di tutti, nessuno escluso. Per farla breve: mentre Einaudi spera in una rielezione,
Merzagora viene candidato pubblicamente, un errore gravissimo, e cade nel tranello. La carica lo attira, e ragionando in modo lineare pensa che se i colleghi di partito hanno parlato apertamente di lui, problemi con ce ne saranno. Invece, va tutto a rovescio: la Dc si spezza in più tronconi: chi per
Merzagora, chi per la rielezione di Einaudi, chi pilatescamente votando scheda bianca.
Mentre le sinistre votano compatte per
Ferruccio Parri, qualche peone Dc sceglie
Giovanni Gronchi. Impallinato
Merzagora, proprio il nome di Gronchi diviene, dopo altri giochi al massacro, vincente, e per la terza volta il presidente della repubblica non è il candidato ufficiale della Dc.
Non sarà un settennato tranquillo, anche perché Gronchi lo interpreta in modo nuovo rispetto alla neutralità burocratica di De Nicola e alla preoccupata sobrietà istituzionale di Einaudi. Gronchi vuole essere protagonista attivo della vita politica: la diffidenza nei riguardi della seconda carica dello Stato, quel Merzagora che non aveva perdonato lo sgarbo elettorale, sfocia, così, in ostilità aperta. In quegli anni che vedono l’apertura ai socialisti e la nascita dei governi di centrosinistra, Gronchi parteggia per l’ingresso di Nenni e dei socialisti nella “stanza dei bottoni”, mentre Merzagora è nettamente contrario.
Tanto contrario che nel 1960, in un discorso tenuto dopo la caduta del governo di Mario Segni, accusa la corruzione dilagante, i partiti, gli affarismi politici, la decadenza dei costumi etici, insomma, di tutto e di più e ogni partito capisce che Merzagora parla a nuora (loro) affinché suocera (Gronchi) capisca. L’accusa è al presidente. Il quale, peraltro, non fa nulla per proteggersi anzi, va incontro a gaffe clamorose, ed è anche parecchio sfortunato quando cade dalla sedia del palco reale della Scala di Milano, avendo al fianco il presidente francese Charles De Gaulle. Dietro di lui cascante… sì, esatto, c’è proprio Merzagora.
A rialzarlo da terra, invece, provvede
Giovanni Leone, segno inequivocabile di patrii destini che bussano alla porta.
La televisione, che afferra già i politici per la collottola dell’ironia e della satira, tenta di nascondere l’inciampo. Di quella caduta non si deve sapere nulla. E nulla si sa… ma solo per poco. Infatti, sul piccolo schermo l’Italia vede
Ugo Tognazzi cadere da una sedia e
Raimondo Vianello rimproverarlo: «Ma chi credi di essere?» Apriti cielo: cadono anche i due comici, espulsi da una Tv che non capisce che con quella cacciata tutt’Italia viene a conoscenza di ciò che la televisione non voleva far vedere.
Terracini il Costituente, eterno battuto
Dopo
Gronchi, viene il turno di
Antonio Segni, potentissimo notabile sardo, il primo dei sassaresi al Colle. Tanto potente da battere al nono scrutinio il candidato appoggiato dai socialisti, quel
Giuseppe Saragat che non avrebbe comunque aspettato molto a insediarsi al Quirinale.
Segni è in testa dal primo scrutinio, quando l’area di sinistra mette in campo ben tre nomi:
Umberto Terracini, Sandro Pertini e Saragat. Pertini lascia subito, poi tocca a Terracini mollare mentre il leader socialdemocratico resiste fino all’ultimo, invano.
Ma saranno solo due gli anni di presidenza di Segni, turbolenti come mai prima. L’avvento del centrosinistra, il “tintinnar di sciabole”, la paura di un golpe istituzionale forse voluto proprio da Segni, un litigio furente con
Saragat e con
Aldo Moro, che lo aveva voluto lì, sul Colle, l’ictus.
Se Gronchi aveva fatto mettere microfoni in ogni stanza perché nessuno potesse rimangiarsi le parole dette al presidente, su quel litigio a tre ancora oggi vige il silenzio più assoluto.
C’è stato ma non ne conosciamo i contenuti, se non in forma vaga. Fatto sta che Segni lascia la carica per malattia e al suo posto viene eletto proprio l’avversario di due anni prima, Giuseppe Saragat, dopo 21 scrutini che vedranno cavalli perdenti nei nomi del solito
Terracini, ma anche di Nenni, Leone, Fanfani e persino
Augusto De Marsanich, mandato al macello dai suoi camerati missini.
Saragat finalmente ce la fa e, oltre che per i telegrammi di congratulazione mandati un po’ a tutti nei suoi sette anni, resta nel ricordo anche perché terminava i discorsi di fine anno con tono enfatico e cadenza piemontese, quasi urlando: «Viva la Repubblica, viva l’Italia».
Il grande trombato di turno è un altro avvocato napoletano, come De Nicola: Giovanni Leone, che aveva rialzato Gronchi da terra pochi anni prima. La Dc non vuole cedere lo “scettro” presidenziale che deteneva con Segni ma a sinistra si pensa in maniera diametralmente opposta. I capi Dc capiscono che chi è candidato rischia una figuraccia, così si defilano lanciando, si fa per dire, Leone al suo destino segnato. Vai avanti tu che a noi viene da ridere, insomma.
Era un Leone, ma anche un agnello sacrificale
Leone resiste pervicacemente in testa per ben 15 dei 21 scrutini ma la sinistra non ci pensa a lasciare la sedia a un altro Dc, dopo la triste esperienza di Segni.
Tanto tuonò che piovve. Al 21° scrutinio, finalmente, dopo estenuanti turni anche nei giorni di Natale e Santo Stefano, il 28 dicembre 1964 Saragat viene eletto presidente. Leone, agnello sacrificale di una battaglia persa in partenza, s’era ritirato dopo il 18° tentativo, lasciando le ultime brutte figure a un socialista,
Pietro Nenni, che fa da apripista a Saragat, pur sognando un ribaltone improvviso a suo favore.
Quanto al presidente del Senato, sì, proprio lui,
Cesare Merzagora, sospira al ricordo di pochi giorni prima, quando si era ritrovato a fare il presidente supplente per quattro mesi, a causa della malattia di Segni.
Fanfani e il poeta del seggio
Finito il settennato di Saragat, la Dc batte cassa: ora tocca a noi. Ma è lunga la via per riuscire a tornare al Colle: dal 9 al 24 dicembre 1971, per 23 inutili e defatiganti scrutini. Il fatto è che i socialisti tornano alla carica, stavolta con Francesco De Martino e, tanto per caricare un altro asso di bastoni, lo stesso Saragat mostra di aver gradito il ruolo e di accettare un eventuale reincarico. Avversario di De Martino, il fumantino e ambiziosissimo
Amintore Fanfani, così che in poche ore gira la battuta più scontata nei corridoi dove la politica si fa davvero: «Dopo la bottiglia, il tappo», riferendosi a una certa predisposizione saragattiana per il buon vino e all’altezza del politico aretino, non certo paragonabile a quella dei corazzieri che attendono al Quirinale. Se le danno di santa ragione, De Martino e Fanfani, ma del quorum non v’è traccia.
Il meglio arriva al sesto scrutinio: Fanfani, presidente del Senato, siede al fianco del presidente della Camera,
Sandro Pertini, e per prassi deve leggere ogni voto prima di passare la scheda al burbero ex capo partigiano. Così, il povero Amintore ha la disavventura di leggere uno di quei voti, un poetico endecasillabo tutto per lui: “Nano maledetto, non sarai mai eletto”. Pertini prontamente annulla la scheda e pur se non si saprà mai il nome del Grande elettore poeta, lo sguardo di tutti va verso i banchi del centro, della Dc, appunto. Fanfani, mestamente, si ritira.
Con lui, tutto il partito, che torna alla carica, ancora con lui, all’11° scrutinio, tanto per vedere che aria tira. Pessima: nuovo ritiro della Dc.
De Martino fa un’infornata di voti inutili fino al 16° scrutinio quando, nonostante gli ordini di scuderia scudocrociata siano per l’astensione, riappare il buon Amintore con 6 voti, dati da chi evidentemente comincia ad annoiarsi. Solo al 22° turno la Dc propone il nome giusto: quello di Leone, il trombato della volta precedente. E siccome Natale s’avvicina e i grandi elettori tutto vorrebbero meno che mangiare il panettone a Montecitorio, l’accordo si trova in un baleno.
Il 23 dicembre, per soli due voti, Leone non è eletto, mentre il Psi abbandona lo sconsolato De Martino per Nenni. Il giorno dopo, neanche Nenni riesce a fermare l’avvocato che ce la fa, anche se per soli 13 voti, raggiungendo il 52% di preferenze.
I tanti nomi bruciati da Pertini
Sul settennato di Leone si è detto di tutto e anche di più, dalla bellezza della moglie ai capricci dei figli, passando per le foto del presidente che fa napoletanissime corna agli studenti che lo contestano.
Un presunto scandalo oggi, uno finto domani, alla fine prevale quello degli aerei Lockeed, che portano Leone addirittura a interrompere prima della fine il suo mandato con dimissioni anticipate.
Solo dopo anni si scoprirà la verità: Leone era innocente. Ma la campagna stampa ha avuto il suo effetto. Per la nuova presidenza, la Dc presenta un vecchio leader come Guido Gonella, mentre il Pci sceglie Giorgio Amendola. Il sogno segreto è quello del Psi, dove Bettino Craxi ha preso il bastone del comando da un paio d’anni e propone per il Quirinale Antonio Giolitti, poi Giulano Vassalli, infine l’anziano Pietro Nenni.
Gonella lascia dopo pochi scrutini e la battaglia a sinistra è campale: il Pci non molla Amendola che (lo sanno tutti) non raggiungerà mai il quorum. E allora? Allora è il Psi che deve cambiare nome, se vuole un socialista al Quirinale.
Quindici scrutini inutili e poi il boom. Con una percentuale da record, l’83%, viene eletto
Sandro Pertini, a dispetto di Craxi, Nenni e anche di Amendola, sacrificato dal Pci per fare un bel dispetto a Bettino. E, se è vero che anche Pertini qualche scherzetto glielo fece (come quello di fermare tutti gli ascensori quando arrivava Craxi al Colle, per vederlo sbuffare sulle scale, ma chissà che non sia solo leggenda…), quella di Pertini resta una delle scelte più apprezzate dagli italiani.
Dopo Pertini si pensa a un presidente meno protagonista, meno istintivo, meno esuberante, più riflessivo. Su queste solide basi si elegge, prima volta nella storia, al primo scrutinio Francesco Cossiga, altro sassarese nella storia del Colle repubblicano.
Lui fa il bravo finché può poi, negli ultimi anni, si scatena. E parla, parla, parla senza tregua. Vengono giù segreti mai completamente tali misti a notizie assolutamente nascoste fino ad allora. Il picconatore, così lo chiamano, finisce il settennato divertendosi alquanto nel ruolo di “pazzerello”.
In realtà intuisce che la fine della prima Repubblica è lì, davanti ai suoi occhi, e allora dai, vai giù di piccone...
Forlani nel tritacarne
Quando, finalmente, si passa a un altro presidente, la lotta tra Dc e Pci ricomincia. Di qua
Arnaldo Forlani, di là una donna,
Nilde Iotti. Se Iotti è come Terracini o Amendola, una candidatura senza possibilità reale, quella di Forlani dovrebbe essere la carta vincente non solo dei democristiani, ma anche dei socialisti.
Il Caf (Craxi, Andreotti, Forlani) tenta di mettere le mani anche sulla presidenza della Repubblica ma al solito, tra oppositori e peones, comunisti e voti allo sbaraglio, anche Forlani finisce nel tritacarne elettorale.
Il momento è drammatico: la morte del giudice Giovanni Falcone per mano della mafia impone velocemente una scelta. Che cade su un vecchio democristiano che piace anche a sinistra, nonostante sia stato uno dei più duri e puri anticomunisti del passato: Oscar Luigi Scalfaro.
Con lui finisce la prima Repubblica, finisce il Caf, e appare sulla scena anzi, scende in campo, quel
Silvio Berlusconi che guarda al Quirinale come a un fastidio da un lato, ma che mira proprio lì, anche per risolvere questioni personali che lo fanno dormire poco.
L’annoso duello tra Scalfaro e Berlusconi è una guerra senza quartiere, col vecchio padre costituente che diventa un piccolo mito vivente anche per la sinistra e con la destra che accusa il presidente di non essere super partes.
Gli ultimi bocciati
Il resto è passato recente. Dopo
Scalfaro, tocca a
Carlo Azeglio Ciampi, come Cossiga subito presidente al primo colpo.
E poi a
Giorgio Napolitano, dopo che nei primi tre scrutini si abbattono da soli o quasi,
Gianni Letta,
Umberto Bossi e
Massimo D’Alema. Costui è l’ultimo trombato cronologicamente parlando, ma qualcuno ha provveduto a ricordargli che spesso i caduti di un’elezione si sono presi la rivincita più tardi.
Immaginiamo uno stentato tentativo di sorriso sotto i baffini di D’Alema. Ma, ciò che più importa è capire chi sarà il trombato eccellente di questa volta, che potrebbe essere anche l’ultima della seconda Repubblica.
Avanti il prossimo, fate il vostro gioco…
Manuel Gandin
DUM ROMAE CONSULITUR, SAGUNTUM EXPUGNATUR
Salvate Sagunto, dateci un Presidente che sia il Presidente di tutti
Il 1° marzo il Forum utilizzava la celebre frase di Tito Livio per stigmatizzare che dopo oltre 2200 anni dall’assedio di Sagunto il vizietto di chiacchierare a Roma mentre il Paese brucia è ancora uno sport nazionale. «Notiamo con piacere come anche Beppe Grillo abbia fatto ricorso alla stessa citazione per descrivere l’attuale situazione politica», commenta Francesco Belletti, presidente del Forum. «Non c’è un assedio militare in corso, ma il Paese brucia ugualmente. Le famiglie sono ormai sfibrate da una crisi economica che continua a colpire, alcuni continuano a fare profitto, la politica resta arroccata nei suoi "giochi".
«Ma al Movimento 5stelle sono bastati meno di due mesi di presenza in Parlamento per adeguarsi al teatrino dei partiti tradizionali riveduto e corretto nella forma del "salviamo il Paese da soli”. Le famiglie italiane chiedono a tutti un sussulto di responsabilità, perché la prima ed importante scadenza, l'elezione del Presidente della Repubblica, porti ad una persona capace di unire il Paese.
«Non è mestiere nostro proporre candidature», conclude Belletti, «chiediamo solo che il nuovo presidente non sia il “campione” di una parte ma che, nel rispetto reciproco, sappia tenere insieme le grandi differenze politiche, valoriali, religiose che rappresentano un patrimonio italiano».
Mai come stavolta la scelta del Presidente della Repubblica si preannuncia delicata e decisiva. Le tattiche dei partiti sono solo all'inizio e nel segreto dell'urna potrebbero decidere alcuni franchi tiratori.
Ma se c'è un principio da cui non si può derogare nell'eleggere il Capo dello Stato è quello della sua rappresentatività. Chi siede al Colle deve essere una personalità in grado di dare voce a tutti gli italiani facendosi garante, come recita la Costituzione, dell’unità nazionale.
Nelle ultime settimane s'è fatta strada l'potesi di Emma Bonino. Gode di buona stampa, riscuote grande simpatia tra gli intellettuali, ogni giorno decine di sondaggi la danno per favorita in virtù del suo essere donna e delle sue battaglie laiciste. Insomma, alle élite del nostro Paese la leader radicale piace. Molti però sorvolano su un piccolo particolare: alle ultime elezioni politiche la lista in cui era candidata la Bonino, "Amnistia Giustizia Libertà", ha preso alla Camera dei deputati la percentuale dello 0,19%, cioè 64.709 voti restando fuori dal Parlamento. E dal punto di vista politico e culturale non rappresenta affatto il mondo cattolico ma incarna piuttosto una cultura radicale libertaria che nulla a che vedere con le posizioni e la sensibilità di chi, anche da laico, si batte, Costituzione alla mano, per difendere la famiglia come «società naturale fondata sul matrimonio».
La sua linea, ribadita da anni di campagne e scioperi della fame, è chiara: depenalizzazione di tutti i tipi di droga, divorzio breve, apertura ad ogni tipo di famiglia comprese quelle composte da coppie omosessuali, eutanasia, liberismo sfrenato in economia, abolizione della legge 40 sulla fecondazione assistita, accettazione dell’ideologia del gender secondo la quale, come ha ricordato Benedetto XVI, «l’uomo contesta di avere una natura precostituita dalla sua corporeità che caratterizza l’essere umano. Nega la propria natura e decide che essa non gli è data come fatto precostituito, ma che è lui stesso a crearsela». E poi ancora: aperture sulle banche del seme e all’utero in affitto.
Senza dimenticare che la Bonino entrò in Parlamento la prima volta nel 1976 sull’onda della notorietà conquistata quando aiutava le donne ad abortire illegalmente a domicilio. Una pratica che lei stessa descrisse in un’intervista: «Gli aborti», spiegò, «vengono fatti con una pompa di bicicletta, un dilatatore di plastica e un vaso dentro cui si fa il vuoto e in cui finisce il contenuto dell’utero. Io uso un barattolo da un chilo che aveva contenuto della marmellata. Alle donne non importa nulla che io non usi un vaso acquistato in un negozio di sanitari, anzi è un buon motivo per farsi quattro risate».
Non a caso il mondo cattolico, dai media alle associazioni, ha preso le distanze dall’ipotesi Bonino al Quirinale: «Non è mestiere nostro proporre candidature», ha spiegato il presidente del Forum delle associazioni familiari Francesco Belletti, «chiediamo solo che il nuovo presidente non sia il "campione" di una parte ma che, nel rispetto reciproco, sappia tenere insieme le grandi differenze politiche, valoriali, religiose che rappresentano un patrimonio italiano». Secondo il Movimento per la Vita c’è «totale incompatibilità fra l'esperienza politica di chi sin da giovane ha scelto di battersi per l’aborto e quel ruolo di rappresentanza massima dei cittadini che caratterizza le funzioni che spettano alla Presidenza della Repubblica». Il Capo dello Stato, ha affermato il Movimento, è il «primo garante della Costituzione che fin dai suoi primi articoli proclama l'impegno della Repubblica a garantire e tutelare i diritti inviolabili dell'uomo. Che tra questi rientri primariamente il diritto alla vita, è generalmente e logicamente riconosciuto».
Sulla stessa linea anche l’Associazione nazionale famiglie numerose: «Noi chiediamo», hanno affermato in una nota i presidenti Giuseppe e Raffaella Butturini, «di tracciare il volto e l’azione di un presidente a partire da quella che è la risorsa prima e insostituibile della società, il suo "cuore pulsante", il luogo dove si generano consumi, relazioni, coesione sociale e fraternità, il luogo dove si genera il futuro della nostra società: la famiglia, “la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” come scrive all’articolo 29 la nostra Costituzione, con una formulazione dovuta a Palmiro Togliatti».
Emma Bonino, è evidente, non rappresenta tutti gli italiani e, se eletta, dovrebbe rappresentare una Costituzione fondata su alcuni principi che lei stessa nella sua lunga carriera politica ha combattuto aspramente.
Antonio Sanfrancesco
Sull’importanza centrale dell’elezione del dodicesimo presidente della Repubblica italiana non vi sono dubbi. L’esito del voto del 24 febbraio ha portato alla formazione di tre grandi minoranze in un orizzonte di governabilità difficile e quasi impossibile. Il prossimo capo dello Stato, dopo la rinuncia di Giorgio Napolitano a un nuovo governo del presidente, avrà il compito di affrontare questo difficilissimo puzzle e di farsi promotore di una riforma elettorale indispensabile, oltre a mettere in sicurezza un sistema istituzionale, mettebndo fine un confronto politico sempre più rissoso e inconcludente.
Le carte in tavola sono numerose, forse troppe. Il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, dopo aver promosso controverse (per usare un eufemismo) elezioni via Internet (sospese e poi ricominciate per l’intromissione di un pirata informatico, almeno questa la versione ufficiale della strana democrazia digitale di Grillo e Casaleggio) ha espresso una prima rosa di candidati: Emma Bonino, Gian Carlo Caselli, Dario Fo, Milena Jola Gabanelli, Ferdinando Imposimato, Romano Prodi, Stefano Rodotà, Gino Strada, Gustavo Zagrebelsky.
Tra queste il successivo sondaggio in rete ha portato all'elezione della conduttrice di Report Milena Gabanelli.
Quanto agli altri due attori in gioco nella partita del Quirinale, finora i nomi sembrano quelli di bandiera, con l’impressione che siano stati tenuti nascosti i veri jolly. Il Pdl fino a questo momento propone Gianni Letta e naturalmente Silvio Berlusconi.
Il Pd si limita a parlare timidamente di Romano Prodi, Giuliano Amato, Franco Marini e Anna Finocchiaro (ma c'è anche l'outsider Anna Maria Cancellieri). Ma presto potrebbe spuntare il nome di Massimo D’Alema, già tra i favoriti nella corsa al Quirinale del 2006 e gradito anche a Silvio Berlusconi. Sullo sfondo i nomi degli “outsider” che potrebbero saltar fuori nel gioco dei veti incrociati. Primo tra tutti l’”evergreen” Giuliano Amato, dato per favorito nelle ultime ore e addirittura eletto nei primi scrutini, quelli che richiedono una maggioranza di tre quarti degli elettori.
Francesco Anfossi