È il 19 novembre 2001. Sulla strada che collega Jalalabad a Kabul, in Afghanistan, viene assassinata la giornalista del Corriere della Sera Maria Grazia Cutuli. Aveva 39 anni. La capitale era stata appena liberata dai talebani.
«Fu l’agguato di una banda che non ebbe la minima pietà», ricorda Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere, «Maria Grazia e i colleghi con cui viaggiava sono stati fermati, circondati, credo che non abbiano sentito nemmeno giustificazioni, spiegazioni. E sono stati trucidati».
De Bortoli è una delle voci dello speciale dedicato alla giornalista da Diva Universal (SKY, Canale 128), in onda venerdì 3 maggio alle ore 20,50, per renderle omaggio con una puntata della serie “Donne nel Mito” trasmessa in Prima Tv in occasione della Giornata mondiale per la libertà di stampa.
A ricordarla, ci sarà anche il fratello, Mario Cutuli, Cristiana Pumpo, autrice della biografia della giornalista, e Barbara Stefanelli, vicedirettore del quotidiano e amica di Maria Grazia. «L’eredità di Maria Grazia», dice quest’ultima, «è quella di aver dimostrato in questo giornale che le donne possono fare anche questo, possono scegliere di fare l’inviato senza preclusioni di territorio e di storie». «Mia figlia», aggiunge, «porta il suo nome. Si chiama Mila Maria Grazia e nacque 2 anni dopo la morte della collega e amica».
Anche il fratello di Maria Grazia, Mario Cutuli, sottolinea il valore dell’eredità lasciata dalla giornalista (fu nominata “inviata” dallo stesso stesso De Bortoli alla memoria, dopo la sua uccisione). «L’esperienza di Maria Grazia e gli avvenimenti che hanno portato alla sua morte hanno avuto un significato rispetto alle sue scelte. Dopo quel 19 novembre è nata una maggiore attenzione agli inviati e ai rischio che corrono nel loro operare quotidiano. Dopo quell’episodio è nato il giornalismo embedded. Lei faceva del giornalismo quasi una missione umanitaria, non dimenticava mai il rapporto umano con la gente. Studiava a lungo i contesti e i Paesi dove andava, ne analizzava le questioni geopolitiche, ma poi, sul campo, si occupava delle persone e della loro quotidianità».
«Prima di tutto», sottolinea Mario Cutuli, «ci ha lasciato ciò che ha scritto. Chi ti racconta qualcosa ti fa un regalo. Lei ci ha fatto tanti, splendidi regali, che costellano in fondo la sua stessa parabola esistenziale. A distanza di a oltre 11 anni dalla sua scomparsa vediamo quanto ancora oggi Maria Grazia abbia colpito il cuore degli italiani. Per tre ragioni: come donna, perché allora fare l’inviato non era un lavoro per donne; secondo, come professionista, per la precisione e l’umanità che metteva nei suoi servizi; terzo, come persona, perché dai suoi reportage emerge il ritratto di una persona e di un modo di fare la giornalista che è di estrema attualità».
Carlo Bonini, giornalista di Repubblica e amico della Cutuli, nella prefazione alla biografia di Maria Grazia scrive: «Il giornalismo c’entra, certo. Ma non spiega tutto. È un indizio. Il sintomo di una irrequietezza. Della fame di vivere dentro le cose. Lì dove le cose accadono. Di una ricerca di empatia con altri mondi, altri esseri umani. Possibilmente diversi, diversissimi. Da condividere».
Una “fame di vivere dentro le cose” che l’aveva portata in Bosnia, Congo, Sierra Leone, Cambogia. E poi in Medioriente: da Gerusalemme in Pakistan e, infine, in Afghanistan, lungo quel percorso che le sarà fatale.
Oggi, dove la giornalista ha lasciato la vita è nata una scuola, inaugurata nel 2011, dove molti bambini costruiscono la loro vita futura. Una scuola voluta dalla Fondazione a lei dedicata proprio nel Paese che lei amava tanto: «Un segno tangibile», conclude il fratello, «dell’amore di Maria Grazia per quei paesaggi, per quei cieli, per quella gente, per quei bambini».