Capita un po' ovunque, in tempi di grandi migrazioni, che persone provenienti da culture diverse si debbano confrontare con leggi diverse da quelle di casa loro e viceversa. Lo stiamo vedendo in questi giorni in Italia con i casi drammatici delle adolescenti che desiderando vivere all'occidentale si scontrano con la repressione della famiglia che impone costumi diversi. A Torino una quindicenne è stata sottratta dalla Polizia a un matrimonio imposto. E' solo l'ultimo caso in pochi giorni, dopo gli allontanamenti per sospetti maltrattamenti a Pavia e Bologna.
Il conflitto generazionale e culturale genera uno scontro di diritti che sfocia in lacerazioni umane profonde e in complicazioni del diritto a fronte delle quali Paesi diversi, anche democrazie pluraliste diverse, danno risposte differenti.
Abbiamo chiesto ad Alberto Mittone, avvocato penalista, autore con il collega Fulvio Gianaria, dell’agile saggio Culture alla sbarra, una riflessione sui reati multiculturali di aiutarci a capire il problema, di spiegarci come si regola in questi casi il diritto italiano a confronto con altri Paesi.
Avvocato Mittone si concilia, nel diritto, questo conflitto?
«Il problema è proprio la conciliazione: se per multiculturalismo intendo relativismo allo stato puro allora dovrei attuare la massima tolleranza possibile al comportamento altrui perché la cultura di provenienza ha pari dignità rispetto alla mia. Se invece applico un principio secondo cui esistono delle priorità per la convivenza collettiva allora si attuano meccanismi diversi. Noi ci siamo detti che abbiamo alcuni principi universali, che tutte le Costituzioni del mondo riconoscono e che a quelli dobbiamo rifarci perché sono i principi della convivenza civile senza i quali noi non ci riconosciamo come parte di una comunità e se qualcuno li infrange, qualunque sia la sua provenienza culturale, va sanzionato».
Par di capire che, al netto di qualche oscillazione, nei tribunali italiani e in Cassazione si vada uniformemente nella seconda direzione…
«Noi italiani siamo geneticamente disfattisti, e guardiamo sempre con grande favore quello che fanno altri Paesi, pensando sempre che quello che facciamo sia peggiore. Se provassimo a essere più obiettivi riconosceremmo che noi abbiamo una giurisprudenza che avrà mille e un difetto ma che, sul tema di cui stiamo parlando, ha tenuto diritta la barra del timone nella tempesta del mondo che cambia. Se tu maltratti o uccidi una persona perché si occidentalizza tu vieni condannato, si potrà discutere secondo il caso se con l’aggravante dei motivi futili e abietti o senza. Il principio è che si deve tutelare la parte più debole, minori ma non solo. Nella nostra società il minore ha una sua dignità e tu devi capire, che quale che sia la cultura da cui provieni, il tuo dovere di genitore è tutelarlo, anche se la tua cultura in cui sei inserito non considera disdicevole mandarlo al freddo a raccogliere l’elemosina. In questo la Cassazione italiana ha deciso su molti casi con grande equilibrio, ha applicato con omogeneità il criterio per cui quando ci sono in gioco i valori costituzionali: la vita, la tutela della persona, la dignità della persona, la sua libertà c’è poco da scherzare. E quando, invece, stiamo trattando di vicende secondarie, bagatellari, possiamo anche affinare il nostro intelletto sulle questioni di principio e magari salvaguardare spazi di mediazione».
Francia e Inghilterra hanno una storia di mescolanza antica, come si sono regolate?
Francia e Inghilterra nell’approccio alle altre culture risentono della loro storia coloniale che ha determinato prima l’espansione e poi il rientro e l’immissione nel proprio territorio di persone che provenivano da culture e principi di riferimento diversi. Mentre gli inglesi hanno un approccio multiculturale, di tolleranza e cercano in ogni modo di trovare un punto di conciliazione, i francesi hanno un atteggiamento estremamente più rigido di mantenimento dell’ossatura originaria nelle istituzioni centrali delle città. E non per niente le banlieu esplodono perché sono luoghi periferici nei quali si lasciano le persone fuori dal centro che i francesi occupano. Il problema è come ti raffronti quando un soggetto che viene da un’altra terra, che porta la sua cultura nella valigia assieme ai vestiti, ai ricordi, alle foto dei parenti, commette un illecito nella tua terra ospitante mentre nella sua cultura quel fatto non è un illecito. Questo è il punto».
Un punto più complicato di quanto sembri in astratto?
«Sì, perché il problema del burkini può essere un problema di principio che turba immensamente meno del fatto di essere davanti a un tribunale con una persona che si difende dicendo: “Perché sono qua? Sì è vero io ho commesso questo fatto, ma a casa mia lo faccio sempre e nessuno mi dice niente”».
Dov’è il punto di caduta?
«Ci sono graduazioni: soprattutto nel campo familiare e dell’educazione. Ci sono i casi estremi dove i padri uccidono la figlia perché non si conforma al proprio costume e cede al costume occidentale. Ma ci sono anche casi molto più molli, molto più evanescenti: si pensi al caso del sikh che per la propria cultura deve portare il pugnale come segno di essere un signore e che viene arrestato per porto d’armi e cade dalle nuvole: “Ma come porto d’armi. Io lo porto perché se non l’ho sono nessuno, ma non faccio male a nessuno né mi sognerei di farlo: lo esibisco come segno della mia autorevolezza”. Come si comporta lo Stato che ha di fronte persone che adducono queste giustificazioni? Gli americani che sono stati i primi ad affrontare il problema lo chiamano “cultural crime”, crimine culturale. È una scusa banale che gli avvocati portano per far assolvere o ha un fondamento di ragionevolezza? Il diritto penale punisce quando c’è dolo, quando una persona agisce consapevole di commettere un illecito. Se questa persona pensa di fare qualcosa di ammesso posso condannare ugualmente?».
Non sembra un problema che si risolva con ricette facili: la Francia sta scontando una terra di nessuno nei ghetti delle banlieu e una tensione sociale enorme. L’Inghilterra sta affrontando la difficoltà di aver lasciato spazi di conciliazione e di mediazione che ora sente “scappare di mano”. Nessuno dei due modelli sembra aver trovato la strada maestra.
«Suggerirei di leggere il romanzo di Ian Mc Ewan, La ballata di Adam Henry, che si cala proprio nel tema di cui stiamo parlando: è la storia di un magistrato inglese che affronta una serie di casi multiculturali tra cui uno che riguarda i testimoni di Geova. Le questioni di relativismo, multiculturalismo rischiano di essere affrontate da punti di vista irriducibili, perché non sono mai verificabili, non sono scientifiche, ma quando tu ti imbatti nei tribunali, che giudicano secondo le norme dei Paesi nei quali sono incardinati, capisci che queste norme sono figlie della storia del Paese in cui nascono e questa storia si scontra con la storia di chi arriva».