E’ un messaggio contro i totalitarismi laici e religiosi. E’ la via ordinaria al dialogo religioso e la spiegazione di come può essere riempito quel nuovo patto del Sinai invocato da papa Francesco al Cairo nel discorso all’università di Al Azhar. E’ il racconto dell’intuizione e della profezia di padre Paolo Dall’Oglio, il gesuita italiano sparito in Siria ormai da quattro anni, che i suoi amici giornalisti e intellettuali hanno affidato alle pagine di un libro curato da Riccardo Cristiano, esperto di Medio Oriente per tanti anni per il Giornale Radio della Rai, che raccoglie le voci di chi lo ha conosciuto, l’ha amato di qui e di là del Mediterraneo e spera che un giorno, non lontano, torni tra noi per raccontare ancora come si fa a riconoscersi tutti figli di Abramo, oltre le semantiche e le sintassi degli alfabeti, oltre le paure di chi è diverso da te, oltre i conflitti che hanno radici antiche e che forse ora è arrivato il momento di sbaragliare, come scrive nella prefazione padre Federico Lombardi, per “sperare di fuggire alle tentazioni e agli inganni continui delle divisioni e dell’odio omicida”.
Padre Paolo Dall’Oglio è scomparso nella tragedia siriana il 29 luglio 2013. Nel Paese aveva messo piede per la prima volta nel 1973, viaggio di studenti, un auto sgangherata che scende per l’Europa dell’Est, la Cecoslovacchia, i Balcani, la Turchia e la Siria. L’intento è di puntare su Gerusalemme. Invano. Ma l’incontro con l’Oriente e quell’intreccio di Chiese, di religioni, di lingue tra Damasco e Aleppo lo segna per sempre. Decide di farsi prete nella Compagna del Gesù e di andare verso l’Islam. Prende i voti nel 1977 a Bikfaya luogo cruciale del cristianesimo arabo sul Monte del Libano. C’è la guerra civile. La Siria la incontra cinque anni dopo.
Scrive: “Nell’estate del 1982 arrivo alle rovine del Deir Mar Musa per dieci giorni di ritiro spirituale e me ne innamoro. Ci trovo il corpo dei miei sogni e desideri, quelli mistici, ma anche quelli comunitari, culturali, politici”. Lo chiama il “corpo a corpo con l’Altro, Allah” e si consolida tra le pietre di Mar Musa attorno ad Homs dove da tempi antichissimi resistevano le pietre di tanti monasteri. Quello di Mar Musa era l’antico monastero siro-cattolico di Al-Khalail. Padre Paolo lo restaura, lo amplia, ma resterà comunque il simbolo delle tenda di Abramo, luogo di incontro, di dialogo, di riflessione, tra cristianesimo e Islam. Non sarò luogo per molti, ma solo per un pugno di persone, gente che cammina sulla frontiera, che disperatamente e cocciutamente tenta di costruire ponti e non muri, come pregherà tanti anni dopo papa Francesco, mentre padre Paolo è nelle mani di chissà chi, con la fronte appoggiata al muro che attraversa Betlemme.
Ricorda padre Federico Lombardi: “Deir Mar Mussa, sulla riva del deserto, rinato dal cuore di Paolo, è un ponte, e la sua piccola e fragile comunità che ho potuto accompagnare qualche mese fa da papa Francesco, continua la sua esistenza di testimonianza con la forza della speranza e della fede”. Padre Paolo se ne é andato da Mar Musa un giorno del 2012, quando la tragedia siriana era cominciata da oltre un anno. I suoi appelli alla riconciliazione, le sue letture politicamente scorrette che contestavano puntualmente lo scontro naturale delle identità e delle civiltà, davano fastidio al regime e alle autorità ecclesiastiche locali in Siria. Lo racconta molto bene nel libro Lorenzo Trombetta, corrispondente dell’Ansa da Beirut, autore di tanti studi sulla complessità del Medio Oriente che da noi si tende inopinatamente a semplificare.
Padre Paolo resterà su quello confine pericoloso, andrà avanti e indietro, nel tentativo disperato di includere tutti e mai di escludere nessuno. Fino a che decide di andare a Raqqa alla fine di luglio 2013. Era il momento peggiore par arrivarci. L’Isis stava prendendo il controllo eliminando gli oppositori della tenue primavere araba di Damasco. Il regime di Damasco stava incominciando a giocare la partita più pericolosa per la gente della Siria, finita da allora sempre più nel buco nero della violenza di regime e in quello sconsiderato della Comunità internazionale che ha lasciato fare al macellaio di Damasco. Padre Paolo aveva ben chiaro la sorte dei siriani e la responsabilità di tutti gli attori del dramma, senza equivoci. Fosse tra di noi ce lo spiegherebbe con la sua icastica lucidità. Ma non c’è e allora dobbiamo ripassare la sua memoria. Lo hanno messo a tacere, nel modo più sicuro. Non lo hanno ucciso facendone ritrovare il cadavere, perché avrebbe continuato a parlare. Lo hanno fatto sparire. Ora la sua voce è stata ripresa dai suoi amici. E il libro intitolato semplicemente con il suo nome fa parte di un mandato che non può tradire chi molto prima della guerra aveva spiegato così la sua visione in un’intervista a Radio France Internationale: “Credo che la pace sia qualcosa che si costruisce con i propri nemici, perché non si farà mai la pace se nell’altro si cerca solo quello che ci assomiglia”. Per questo era andato a Raqqa quattro anni fa, per incontrare i nemici e perché il momento era pessimo. E lui doveva esserci. Questo libro parla per lui in attesa che torni e parli di nuovo.