Il fenomeno non è nuovo, ogni volta si contano i danni e l’emergenza ci travolge da nord a sud in una colata di acqua e fango, che porta con sé macerie e lutti. Su Ingenio, una testata tecnica che ha alle spalle un comitato scientifico e si rivolge a tecnici del territorio e delle costruzioni, nel dicembre scorso Vittorio D’Oriano, già vice presidente del Consiglio nazionale dei geologi, scriveva «La nostra penisola, dal punto di vista idro-geo-morfologico, è fragile, per costituzione litologica, per assetto geologico-strutturale, per conformazione orografica. Tutto concorre a questa fragilità. A questo dobbiamo associare il fatto che il nostro è un territorio fortemente urbanizzato».
Ricordando che su molte delle nostre pianure piccole costruite fin dall’antichità, osservava: «Hanno avuto incrementi urbanistici parossistici a partire dagli anni ’50. E non mi riferisco solo ovviamente al deprecabile fenomeno dell’abusivismo ma anche a quello dell’edilizia autorizzata».
Non possiamo definirle parole profetiche, oggi che contiamo i danni dalla Valle D’Aosta al piacentino, intanto che la perturbazione e l’allerta viaggiano verso est, perché riflettono un problema ciclico, ma tornano utili a capire quello che ci succede ora. «Purtroppo», scrive D’Oriano, «devo affermare senza ombra di dubbio che la salvaguardia del territorio è la cenerentola delle politiche messe su da qualsiasi governo».
Un tema che non si esaurisce nello stanziamento dei fondi promessi: «Perché la verità è che la burocrazia, l’ignoranza diffusa su questioni di assetto del territorio, unite alla costante volontà di emarginare i geologi e la geologia da questa materia la fanno da padrone ritardando l’uso di quei finanziamenti ovvero favorendo progetti insufficienti se non addirittura controproducenti».
A chi si chiede che cosa voglia dire territorio fragile D’Oriano risponde che «Un territorio fortemente urbanizzato, spesso, anzi molto spesso, in barba alle leggi naturali che sovrintendono l’evoluzione delle terre emerse. Chi sa di scienze della terra sa bene che questa evoluzione è inarrestabile: i rilievi sono fatti per essere smantellati e il vento e l’acqua, così come l’alternarsi delle stagioni, sono gli agenti di questo smantellamento. Vi è un equilibrio in tutto questo che lega in modo indissolubile le montagne, ai rilievi collinari, alle pianure, alle coste. Nonostante queste ovvie affermazioni in Italia si è continuato a costruire come se esistesse solo il sito di imposta di quel preciso fabbricato; nessuno, o pochi, che si preoccupassero del contorno di un’area più vasta ovvero di considerare preventivamente gli effetti anche in zone assai lontane rispetto a quella di imposta di un qualsiasi intervento dell’uomo. E le frane fanno collassare i piloni dei viadotti».
La descrizione che segue rende a parole quelle che il 3 ottobre 2020 abbiamo visto materializzarsi in immagini per l’ennesima volta: «Corsi d’acqua stretti fra case abbarbicate sulle loro sponde, zone di foce occupate da interi quartieri, versanti stuprati da costruzioni, pianure intasate da capannoni e altre strutture produttive, fiumi o torrenti trattati come se fossero delle condotte perenni, con forma e ampiezze costanti nel tempo e come se fossero scollegati dal resto del territorio del quale invece essi sono i principali artefici».
La conclusione è lapidaria, dice papale papale che nulla cambierà se non si mette al centro il sapere maturato dalle Scienze del territorio e da chi le studia: «Continueremo a sprecare risorse o a non far nulla».
La parola d’ordine sarebbe pianificazione, ma si sa che costa e non rende in termini di consensi: chi previene, semina buone pratiche di cui si raccolgono frutti soltanto alla lunga, quando a governare al centro e in loco saranno altri.