Dieci ore di terrore. Torturati, massacrati, sgozzati, uccisi a fil di spada con “lame affilate”. La più grave strage di civili connazionali mai perpetrata in un attentato terroristico all’estero. Una follia sanguinaria assoluta, una barbarie “contro Dio e contro l’uomo insensata”, come ha detto papa Francesco nel commentare la tragedia di Dacca. Buona parte delle vittime dell’Holey Artisan Bakery, nel cuore del quartiere diplomatico di Dacca sono italiane, gli aguzzini non hanno risparmiato nemmeno le donne. Tante coppie, tante famiglie sono state distrutte. Come quella di Gianni e Claudia, che vivevano nella capitale del Bangladesh da vent’anni e offrivano la loro casa come sede delle missioni umanitarie dei medici che venivano in questo Paese per curare i malati.
Ancora una volta la violenza cieca dell’Isis o dei suoi sottogruppi di questo vero e proprio “franchising del terrore” ci ha colpito al cuore, come nella strage tunisina del Bardo o nel sacrificio della giovane ricercatrice veneziana Valeria Solesin, morta nell’attentato al Bataclan. Fa impressione, nelle foto divulgate da uno dei siti dell’estremismo islamico, l’aspetto dei terroristi-aguzzini. Sono tutti giovani, tutti - ci informano le cronache che giungono dal Bangladesh - di buona famiglia, ben istruiti, lo sguardo assente e ottuso (come ha osservato anche il presidente Mattarella, che ha parlato di “ottusità” dei terroristi), inconsapevole ed ebbro, di chi staziona allegramente e inconsapevolmente alle porte degli inferi e sa che sta per entrare nel gorgo della morte.
C’è chi sospetta che dietro le stragi di questi giorni, ci sia la mente e la regia di Abu Muhammed al-Adnani, il capo delle operazioni militari dell’Isis. L'ipotesi si basa su un ragionamento lucido quanto elementare: l’indebolimento territoriale dell’Isis, che sta battendo in ritirata da numerose città in Siria, Libia e Iraq, porta i jihadisti a utilizzare l’arma mediatica degli attentati per un duplice scopo: spaventare l’Occidente ma soprattutto dare un’immagine di non arretramento all’interno del mondo islamico. Ma tutto potrebbe basarsi semplicemente sulla logica sanguinaria del network del terrore e dal fascino del terrore esercitato su questi giovani bengalesi dove "fare il miliziano è diventato di moda": non è necessario prendere contatti diretti, il terrorismo del Isis, lo Stato terrorista islamico, diventa una sorta di legittimazione dei propri atti di cieca follia, un brand globale che finisce per colpirci nella psiche, nella paura, persino “nei nostri sogni”, come proclama una delle cellule che ha rivendicato l’attentato, il cosiddetto misterioso esercito dei “figli del Califfato”.
Il resto lo fa il villaggio globale. Basta una televisione. Ci sono analogie nettissime con la strage di Parigi, con il lessico (la lotta ai “crociati”), l’offerta di un salvacondotto attraverso la recita dei versetti del Corano. Non sappiamo con certezza se c’è una regia globale, se c’è un collegamento con la recentissima strage dell’aeroporto di Istambul, ma se ci fosse, sappiamo che la “centrale dell’orrore” è pronta a colpire ovunque vi siano disordini sociali. I “figli del califfato” possono essere ovunque. Anche in Bangladesh, un Paese poverissimo dove si sono susseguiti i colpi di Stato militare e che fatica a trovare un equilibrio democratico attraverso Shaikh Asina, il capo del Governo che con l’aiuto della Corte costituzionale sta tentando di laicizzare un Paese dove l’Islam è una religione di Stato. In un Paese-polveriera così povero, infiltrato da pulsioni e predicazioni radicali wahabite e salafite, è stato facile gioco fare presa su un pugno di giovani ossessionati e affascinati dalla propaganda del terrorismo islamico.