C’è chi legge Il Manifesto, chi Il Giornale. Alla presentazione del Rapporto Italiani nel mondo 2012,
a cura della fondazione Migrantes, il pubblico è eterogeneo. Come i
nostri connazionali che hanno varcato i confini per andare a investire i
loro talenti più in là. “Perché di talenti, si tratta”, spiega il
prefetto Alessandro Pansa, aprendo i lavori. E rammaricandosi di
“non riuscire a far tornare in Italia quanti hanno confrontato e
rafforzato le loro capacità all’estero. Non bisogna tanto
bloccare le partenze quanto invece far sì che gli italiani che si sono
affermati fuori abbiano voglia di tornare a investire i loro talenti in
Italia. Noto però che, nonostante la legge del 2010 che voleva
favorire il rientro, in realtà, la maggioranza dei nostri connazionali
non pensa di poter avere un futuro nel nostro Paese. Sono davvero pochi
quelli interessati a tornare”.
Al contrario, nell’ultimo anno, i cittadini italiani
iscritti all’Aire (associazione italiana residenti all’estero), sono
aumentati di 93.742 unità. In totale gli emigrati italiani sono poco più di 4milioni e 200mila, pari al 6,9% degli italiani residenti in patria.
Le donne sono il 47%, i minori il 15,8. Il 19% ha più
di 65 anni. Emigrano soprattutto dalla Sicilia, dalla Campania, dal
Lazio, dalla Calabria e dalla Lombardia.
Le prime cinque provincie di partenza sono Roma, Cosenza, Agrigento, Salerno e Napoli. Le destinazioni sono diverse. Le prime cinque mete sono, nell’ordine, Argentina, Germania, Svizzera, Francia e Brasile.
“La settima edizione di questo Rapporto”, ha insistito
monsignor Giancarlo Perego, direttore generale della Fondazione
Migrantes, “avviene in un momento di crisi del nostro Paese.
Anche per questo è importante capire come è cambiato il fenomeno
dell’emigrazione italiana per aiutare a superare il senso di distanza e
separazione nei confronti degli emigrati. In questi anni, il Rapporto è
diventato uno strumento per una maggiore presa di coscienza di quanto
sia inevitabile incontrare oggi questa Italia migrante nel panorama
della mobilità europea e internazionale”.
Non si è persa memoria, in Australia, dell’ondata migratoria che si riversò nella terra dei canguri quando gli Stati Uniti decisero di chiudere le loro frontiere. In tanti trovarono lavoro, dagli anni Venti in poi, nelle fonderie di Port Pirie.
Ancora oggi si racconta di quando, accertato l’avvelenamento cronico da piombo che aveva colpito i lavoratori, in gran parte europei e, in particolare italiani, la commissione d’inchiesta governativa concluse che “questi lavoratori si erano ammalati perché molto più sensibili ai rischi rispetto agli australiani”.
Una sensibilità alla malattia dovuta al fatto che “erano sporchi, mangiavano male, avevano idee primitive, erano più emotivi (e quindi più inclini alla paura e alle malattie degli anglo-britannici) e non parlavano inglese”.
Nella relazione non c’era alcun accenno al fatto che gli stranieri provenienti dal Sud Europa, e in particolare dall’Italia, erano assegnati ai lavori peggiori, più vicini ai fumi e alla polvere degli altoforni. In seguito anche a inchieste di questo tipo si diffuse in Australia la convinzione che gli stranieri, in particolare gli europei non di lingua inglese, fossero inferiori e che costituissero una minaccia per la purezza della razza e la sopravvivenza stessa del Paese.
Chi l'avrebbe detto che la nostra mozzarella avrebbe fatto scuola anche in India? Grazie all’intraprendenza di Anna Maria Forgione, una nostra connazionale campana emigrata a Calcutta, uno dei nostri prodotti più apprezzati è sbarcato sulle tavole degli indiani.
Proprietaria di un ristorante-pizzeria, la Forgione, con il supporto del nostro Consolato a Calcutta e della ong Institute for indian mother and child, la Forgione ha inventato una sorta di microcredito sulla mozzarella. In pratica le banche, invece che prestare soldi ai contadini poveri, prestano delle mucche.
Anna Maria Forgione, con i suoi tecnici, insegna alle donne indiane sia come gestire gli animali che come produrre la mozzarella. Una parte del prodotto lo compra lei stessa per il suo ristorante. In questo modo ben 100 donne riescono a farsi prestare e a gestire una mucca. Ogni dieci litri di latte ricavano un chilo di mozzarella. La differenza tra il prezzo sul mercato del latte e quello del prodotto finito consente loro sia di ripagare il debito contratto con la banca (che in questo modo compra altre mucche da prestare), che di vivere.