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sabato 14 settembre 2024
 
 

Londra 2012, giochi da ragazze

23/07/2012  Federica Pellegrini, Valentina Vezzali, Josefa Idem... che l’azzurro virasse al rosa s’era capito fin dalla bandiera. Ma Londra 2012 avrà molto di femminile anche altrove.

Vincere, il più delle volte, è un’avventura a metà strada tra il caso e la necessità. Raramente sfiora l’uno o l’altra. Ma quando l’oro diventa un evento necessario, i Giochi si fanno duri. Federica Pellegrini e Valentina Vezzali sono tra i pochi che sperimentano la pressione che spetta a chi ha già fatto la cosa più difficile: vincere e quella più difficile ancora, confermarsi. Andare oltre è un’impresa al limite. Federica Pellegrini, da molti anni stabilmente ai vertici dei 200 e 400 metri stile libero, lo sa bene e per dare tutto, già il 28 luglio, primo giorno di gare, ha scelto di farsi da parte per la Cerimonia della sera prima, lasciando la bandiera all’altra fuoriclasse, Valentina Vezzali, tre volte oro nel fioretto individuale, in tre edizioni. Si sapeva da prima che quella vetrina quest’anno sarebbe stata un affare tra donne: nessuno tra i 291 azzurri in gara poteva ambire al tricolore quanto loro due e Josefa Idem, all’ottava Olimpiade, sulla soglia delle 48 primavere.

La storia dice del resto che anche altrove quelli di Londra 2012 saranno Giochi da ragazze. Un fatto oggettivo: la delegazione italiana vede in rosa il 43% della spedizione, mai state così tante in percentuale. Ma negli Stati Uniti è già avvenuto il sorpasso: per la prima volta le ragazze sono più dei ragazzi. E, finalmente, dopo tante pressioni del Comitato olimpico internazione, anche l’Arabia Saudita schiererà le prime due donne della sua storia olimpica: la judoka Wodjan Ali Seraj Abdulrahim Shahrkhani e Sarah Attar, che correrà gli 800 metri. Il Qatar avrà addirittura una portabandiera. Può darsi che non basti a cambiare il mondo, ma mostrerà al mondo che qualcosa si può fare. In azzurro le ragazze hanno il favore del pronostico: negli ultimi anni, è innegabile, le donne hanno vinto più dei cavalieri. Non solo Pellegrini e Vezzali, ma anche Tania Cagnotto e Francesca Dallapè, uniche europee ammesse nella città proibita dei tuffi, in cui si parla quasi solo cinese mandarino.

A squadre, le azzurre hanno dato filo da torcere al mondo non solo nella ginnastica ritmica che è feudo femminile, ma anche nella pallavolo e nella pallanuoto. Quanto basta per imporre ai colleghi uomini di darsi da fare a Londra, almeno per non sfigurare. I capaci non mancano: la pallanuoto maschile campione del mondo, Daniele Molmenti nella canoa slalom, Valerio Cleri nel nuoto in acque libere sono certezze consolidate. Ma potrebbero sbucare outsider: Daniele Greco e Fabrizio Donato, i due triplisti che hanno dato segni di forma nell’atletica, e Gregorio Paltrinieri, nuotatore ragazzino dei 1.500 metri. Conviene che stiano in campana: a pochi giorni dai Giochi Jessica Rossi, ragazzina del tiro a volo, è arrivata quarta dietro tre uomini. Le gare olimpiche non sono miste, ma qualcosa vorrà dire. Maschietti avvisati...

Parola d’ordine: clausura. Lontano dalle tentazioni, perché la marcia non perdona. Se non le dai l’anima, ti molla. Alex Schwazer lo sapeva da quando, ragazzo, scalava camminando con quell’andatura ondeggiante i vertici dell’atletica mondiale. Ma solo dopo Pechino 2008 ha imparato la distanza tra polvere e altari. Finché si va dalla polvere agli altari, si sale in orizzontale, camminando, con fatica ma crescendo; il percorso inverso invece è verticale come un filo a piombo: dall’alto non si scende, si cade. Oggi Alex Schwazer guarda il suo successo di Pechino, oro a 23 anni nella 50 km, e gli insuccessi successivi (Berlino, Barcellona, Deagu...) con una maturità diversa. Con un nuovo distacco e con la consapevolezza di partire per Londra accreditato della miglior prestazione mondiale stagionale sulla 20 km e di quella cosa che lui chiama semplicemente “star bene” sulla 50 km, la sua preferita. Poi si vedrà, ma intanto c’è una persona nuova.

– Che cosa vuol dire clausura, Schwazer?

«Una vita da monaco. Allenarsi, mangiare, dormire, allenarsi. Allenarsi, mangiare, dormire, allenarsi».

– Da Pechino a qui ha cambiato “conventi”, perché?

«Quando ho lasciato Saluzzo, dove mi allenavo prima, ho creduto di poter continuare in Alto Adige, a casa mia. Ma non funzionava: l’amico che ti tenta, la mamma che ti cucina, troppe comodità. Per la marcia devi metterti al livello dei tuoi colleghi dell’Est, che hanno fame vera, entrare nelle loro scarpe, imparare a pensare come loro».

– Dove ha trovato le scarpe dei russi?

«A Settimo Milanese, perché a Milano abita Michele Didoni, il mio attuale allenatore, la persona che mi ha dato fiducia quando non ci credevo più. Lì capitano anche due settimane filate di nebbia. Quando sono arrivato mi sono detto: qui va bene. O dopo una settimana torni a casa in lacrime dicendo che non ne vuoi più sapere, o resti e affronti quello che c’è da affrontare».

– Che cos’ha affrontato?

«Diecimila chilometri l’anno: 250 circa a settimana, prima arrivavo a novemila al massimo. È normale, si cresce, ma ci vuole testa: senza, non riesci a fare fatica oggi e andare a dormire sapendo che domani ne farai altrettanta e dopodomani di più. A volte, lo ammetto, ho sognato un lavoro d’ufficio, un cartellino da timbrare, per sedermi: però una delle cose che mi danno soddisfazione in questo momento è la stima delle persone che si allenano con me, non per i risultati ma per la serietà con cui faccio il mio mestiere».

– In mezzo cos’è successo, ha perso la fame?

«Ero arrivato a Pechino crescendo sempre un po’, in fondo inconsapevole: quando ho vinto la mia prima medaglia ai Mondiali, nel 2005, sono partito credendo di arrivare 20°, fin lì se ero forte fisicamente il resto veniva. Dopo Pechino, invece, ero il campione olimpico, uno che tutti cercano, da cui si aspettano tutti che vinca sempre: mi allenavo ancora, ma avevo altre cose, attorno un’attenzione che non conoscevo. Andavo in gara e mi dicevo: vinco. Ma non era più come quando non mi conosceva nessuno».

– È per questo che si è isolato?

«È stato facile, se non vinci non ti cercano. Ma questa tranquillità, questa assenza di distrazioni è nelle mie corde. Non è che io sia scappato, ma l’essere solo con me stesso ad allenarmi, senza riflettori, mi fa stare bene».

– Il fatto che la sua fidanzata, Carolina Kostner, sia un’atleta la aiuta?

«Sì, anche se le esperienze non sono sovrapponibili perché sono discipline diversissime. Però è fondamentale avere accanto qualcuno che comprende i sacrifici e non te li fa pesare, ma li rispetta e li capisce. Diversamente sarebbe impossibile».

– Ha mai pensato di non farcela?

«Dopo che sono ripartito, dopo l’infortunio al ginocchio, mai. Ripensare alla fatica che avevo fatto per arrivare a Pechino mi ha impedito di buttare al vento tutto il lavoro che avevo fatto da ragazzo. Ma dopo Barcellona, quando non riuscivo più ad apprezzare il valore di una medaglia d’argento nella 20 km, mi sono chiesto che senso avesse tanta fatica. È stato quello il momento più duro».

 - Nonostante l’argento, peggio dei Mondiali di Deagu l’anno scorso, quando è arrivato nono a due minuti dal primo?

«Sì. Senza Didoni forse non avrei accettato di andare ai Mondiali sapendo di non essere al 100%, a fare solo la 20 km con la prospettiva di arrivare 15°. È stato bravo il mio allenatore a imporsi; mi ha detto: “No, tu ci vai e fai la tua esperienza anche se non sei in forma. Finisci la gara, ti servirà”».

 – Aveva ragione?

«Sì. Un atleta impara con il tempo a conoscere le proprie sensazioni, a riconoscere quelle che ha già provato. Didoni è una persona di grande sensibilità, non si limita a dirti “dobbiamo fare questo”, se capisce che non ci sei con la testa ragiona con te finché trova la soluzione. Sono fiero di averlo come tecnico e come amico, se oggi vado a Londra con una consapevolezza nuova lo devo anche a lui. Quello che lui ha fatto a Deagu è la prova che nemmeno il campione olimpico può illudersi di fare da solo».

 – A Londra si è iscritto a 20 e 50 km: che cosa vorrebbe, medaglie a parte?

«Arrivarci esattamente come mi sono sentito nelle ultime settimane. C’è chi dice che la vita sia una specie di montagna russa che alterna alti e bassi. Io adesso sento che sto salendo ed è una bella sensazione, spero di conservarla fino alla partenza. Se così sarà, partirò con un sorriso».

– Si sente più forte rispetto a Pechino?

«Come persona sì. Sono più maturo, ho imparato a soffrire: so che non devo avere paura né del caldo, né del freddo, né della pioggia. A Settimo ho sperimentato tutto e non ho mai mollato».

– La sua soddisfazione, a parte vincere?

«Finire una gara con la coscienza a posto. Non dovermi guardare dentro e pensare: potevo, dovevo fare di più».

Siamo un popolo di santi e navigatori, ma, tempi andati dell’esercito romano a parte, di guerrieri solo per necessità. Le missioni di pace, lo dicono gli stranieri, ci vanno più a genio delle missioni di guerra. Lo dicono nel bene: elogiando le forze armate italiane per il loro ruolo nella cooperazione. Però quando si tratta di sport il mestiere delle armi è mestiere nostro (e non solo perché le forze armate spesso danno di che vivere al nostro sport). Semplicemente ci sta più simpatico quando si tratta di uccidere con una fucilata un piattello che sbuffa polvere gialla e fucsia. Chiara Cainero e Giovanni Pellielo a Pechino quattro anni fa non hanno tremato nemmeno sotto una pioggia che accecava lo sguardo. Jessica Rossi è poco più che una ragazzina, ma dalla fossa tira come un cecchino.

Medaglie preziose, chissà se capaci di esaudire le 25 auspicate dal presidente del Coni, verranno certamente dalle armi bianche, le nostre preferite, quelle che nella storia olimpica sono per noi una certezza nei secoli fedele, che dei duelli veri conserva soltanto il clangore del ferro e un certo formalismo figlio del diritto antico che li contemplava come mezzo, quello sì all’ultimo sangue, di dirimere le controversie. Le nostre squadre di fioretto sono accreditate dei primi posti in classifica mondiale. Ma anche spadisti e sciabolatori hanno crediti di peso e storie spesse di risultati. E non è raro che le dispute per il podio olimpico si giochino in casa, tra compagni d’allenamento se non proprio di stanza: non sarebbe neanche peregrino, visti i valori sulla carta, che Valentina Vezzali, portabandiera, se la veda con Elisa Di Francisca, che Cassarà si giochi la medaglia contro Aspromonte, Avola o Baldini. Va bene al resto del mondo che non siano previste squadre miste, con duelli stile Tancredi e Clorinda.

Però in fatto di duelli virtuali, come sempre sono quelli dello sport, potremmo fare anche il bel gesto di lasciar scegliere l’arma all’avversario: vantiamo tiratori scelti con la pistola del tiro a segno (a Londra con Niccolò Campriani) e con l’arco (Natalia Valeeva, Marco Galiazzo, Michele Frangilli e Mauro Nespoli), dove non si scende dal podio dal 1996. In mancanza d’armi, non siamo male neanche con le mani, contro i giganti. A Pechino abbiamo avuto tre medaglie dal pugilato: con Roberto Cammarelle, Clemente Russo e Vincenzo Picardi. Sono tutti di nuovo in squadra e si vedrà. Ci siamo stati, con meno assiduità, anche nella lotta, nei lontanissimi anni Ottanta del minuscolo Vincenzino Maenza e quattro anni fa con il colosso Andrea Minguzzi, ma stavolta non ha staccato il pass: su quel fronte siamo una sporadica, benché gloriosa, presenza di raro Occidente, in un mondo dominato dal povero e profondo Est dell’Asia centrale. Del resto anche l’oro di Pechino brillava di più perché inatteso. Quest’anno lotta per tutti noi solo Daigoro Simoncini, uno che ha un nome da paladino d’Orlando.

Impossibile in un mondo di ragazzi – come per natura è quello olimpico – non mettere in conto un mondo d’amori. Alcuni discreti, come la relazione tra Alex Schwazer e Carolina Kostner, difesa per quanto possibile dagli spioni sempre in agguato; altri alla luce del sole, magari amplificato dal riflesso dell’acqua delle piscine, come la liaison platealmente nata e molto paparazzata di Filippo Magnini e Federica Pellegrini.

Colpa un po’ della popolarità pregressa, un po’ del modo in mondovisione in cui la freccia di Cupido è scoccata proprio durante un Mondiale galeotto. Difficile a quel punto nascondersi, tanto valeva stare al gioco dei rotocalchi, come hanno fatto Magno e Fede, per la gioia degli appassionati del gossip.

Ma l’amore olimpico non è una novità di questi anni, c’è un legame nato ai Giochi di Londra 1948, che dura ancora: la storia di una ragazza che si trovava in gita in Inghilterra e di un giovane bruno che era lì perché correva veloce. Il giovane non vinse medaglie allora ma è stato risarcito, dalla vita dice lui: «Ho anche la medaglia, “alla resistenza”: me l’hanno regalata gli amici per i 55 anni di matrimonio». Il matrimonio tra Ottavio e Rosita Missoni: «Il merito del nostro successo va tutto a lei. Sul lavoro eravamo pari, ma quando si finiva Rosita aveva una casa, tre bambini, cinque cani e come asso di briscola aveva me. Sono sempre stato dalla parte delle donne, anche perché mia madre era una donna. Sbaglio?». Il resto della storia è noto, insieme hanno inventato il mondo a righe e il sodalizio dura da allora. Ottavio Missoni non ha smesso di gareggiare, l’atletica è ancora una passione: anche se da poco come atleta master, nel getto del peso, è passato di categoria. La sua, a 90 anni, sarebbe M 90, ma lui preferisce definirsi Under 95, è il suo modo di aggredire la vita e guardare avanti.

Forse l’idea non piacerà a Parigi rivale di Londra nella candidatura 2012 e detentrice con il barone de Coubertin del brevetto dell’Olimpiade moderna, ma se c’è un luogo in cui soffia lo spirito olimpico, versione a cinque cerchi della cortesia, quel luogo è Londra, l’unica sede prescelta tre volte. Da Londra passa alla storia la più antica icona olimpica dopo Fidippide, inventore suo malgrado della maratona al tempo della Grecia classica. Quell’icona è Dorando Pietri: idea platonica della sconfitta epica, ma anche della gloria imperitura a risarcimento. Arrivò primo nella maratona di Londra 1908, con minuti di vantaggio. Non bastarono, barcollò a pochi metri dal traguardo. Chi lo sorresse ne decretò la morte atletica: squalificato. Vincente e squalificato. Conan Doyle era in tribuna e lo raccontò, la regina Alessandra si impietosì e volle premiarlo con una coppa d’argento. Col risultato che nessuno ricorda più Hayes, il vincitore, mentre i baffi all’insù del pasticciere di Carpi, gambe storte da italiano d’altri tempi in gita, sono l’immagine inestinguibile dello spirito olimpico che respira. Mai stato più vero di così che partecipare contasse più che vincere.

Ma Londra è spirito che soffia anche in altri modi: nel 1948 sbarcò sul Tamigi la prima Olimpiade del dopoguerra, e lì si concepì, anche se all’inizio le sedi erano diverse, la prima Paralimpiade della storia, pensata dapprima più che altro come strumento riabilitativo per chi in guerra aveva lasciato pezzi di corpo e d’anima, ma destinata a diventare negli anni quello che ora è: sport, agonismo puro, voglia di vincere. Che importa se con un senso, una gamba, un braccio in meno: conta lo spirito. Sarà un caso che proprio per Londra si sia qualificato Oscar Pistorius, primo amputato in corsa con i normodotati? Forse c’entra qualcosa “Il Redgrave”, che non è – come dicono gli annali – Steve Redgrave, il canottiere inglese che ha vinto cinque ori in cinque edizioni, cioè sì lo è, ma è soprattutto una categoria dello spirito, come vuole Simone Barnes autore di The Meaning of sport (il significato dello sport): «Redgrave non è solo una persona è anche una qualità. In ogni grande momento dello sport», scrive Barnes, «l’atleta che lo affronta deve avere dentro un po’ di Redgrave. Scelgo di vincere o di non vincere? La qualità di Redgrave è la parte di te che non accetta compromessi: la parte che ti porta per primo oltre il traguardo, dopo aver già dato tutto ciò che credevi di avere. Non ha a che fare con il corpo, c’entra la mente. Quando un atleta ovunque nel mondo vince qualcosa in qualunque sport dovrebbe pagare i diritti a Steve Redgrave». Se lo spirito olimpico esiste, soffia sotto il Big Ben.

 
 
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