Vincere, il più delle volte, è un’avventura
a metà strada tra il caso e la necessità.
Raramente sfiora l’uno o l’altra.
Ma quando l’oro diventa un
evento necessario, i Giochi si fanno duri.
Federica Pellegrini e Valentina Vezzali sono
tra i pochi che sperimentano la pressione
che spetta a chi ha già fatto la cosa più difficile:
vincere e quella più difficile ancora, confermarsi.
Andare oltre è un’impresa al limite.
Federica Pellegrini, da molti anni stabilmente
ai vertici dei 200 e 400 metri stile libero,
lo sa bene e per dare tutto, già il 28 luglio,
primo giorno di gare, ha scelto di farsi da parte per la Cerimonia della sera prima, lasciando
la bandiera all’altra fuoriclasse, Valentina
Vezzali, tre volte oro nel fioretto individuale,
in tre edizioni. Si sapeva da prima che quella
vetrina quest’anno sarebbe stata un affare
tra donne: nessuno tra i 291 azzurri in gara
poteva ambire al tricolore quanto loro due e
Josefa Idem, all’ottava Olimpiade, sulla soglia
delle 48 primavere.
La storia dice del resto che anche altrove quelli di Londra 2012 saranno Giochi da ragazze.
Un fatto oggettivo: la delegazione italiana
vede in rosa il 43% della spedizione,
mai state così tante in percentuale. Ma negli
Stati Uniti è già avvenuto il sorpasso: per
la prima volta le ragazze sono più dei ragazzi.
E, finalmente, dopo tante pressioni del Comitato
olimpico internazione, anche l’Arabia
Saudita schiererà le prime due donne della
sua storia olimpica: la judoka Wodjan Ali Seraj
Abdulrahim Shahrkhani e Sarah Attar,
che correrà gli 800 metri. Il Qatar avrà addirittura
una portabandiera. Può darsi che non
basti a cambiare il mondo, ma mostrerà al
mondo che qualcosa si può fare.
In azzurro le ragazze hanno il favore del
pronostico: negli ultimi anni, è innegabile,
le donne hanno vinto più dei cavalieri. Non
solo Pellegrini e Vezzali, ma anche Tania Cagnotto
e Francesca Dallapè, uniche europee
ammesse nella città proibita dei tuffi, in cui
si parla quasi solo cinese mandarino.
A squadre, le azzurre hanno dato filo da
torcere al mondo non solo nella ginnastica
ritmica che è feudo femminile, ma anche nella
pallavolo e nella pallanuoto. Quanto basta
per imporre ai colleghi uomini di darsi da fare a
Londra, almeno per non sfigurare. I capaci
non mancano: la pallanuoto maschile campione
del mondo, Daniele Molmenti nella canoa
slalom, Valerio Cleri nel nuoto in acque
libere sono certezze consolidate. Ma potrebbero
sbucare outsider: Daniele Greco e Fabrizio
Donato, i due triplisti che hanno dato segni
di forma nell’atletica, e Gregorio Paltrinieri,
nuotatore ragazzino dei 1.500 metri.
Conviene che stiano in campana: a pochi
giorni dai Giochi Jessica Rossi, ragazzina del tiro
a volo, è arrivata quarta dietro tre uomini.
Le gare olimpiche non sono miste, ma qualcosa
vorrà dire. Maschietti avvisati...
Parola d’ordine: clausura. Lontano dalle
tentazioni, perché la marcia non perdona.
Se non le dai l’anima, ti molla.
Alex Schwazer lo sapeva da quando, ragazzo,
scalava camminando con quell’andatura
ondeggiante i vertici dell’atletica mondiale.
Ma solo dopo Pechino 2008 ha imparato la distanza
tra polvere e altari. Finché si va dalla
polvere agli altari, si sale in orizzontale, camminando,
con fatica ma crescendo; il percorso
inverso invece è verticale come un filo a
piombo: dall’alto non si scende, si cade.
Oggi Alex Schwazer guarda il suo successo
di Pechino, oro a 23 anni nella 50 km, e gli insuccessi
successivi (Berlino, Barcellona, Deagu...)
con una maturità diversa. Con un nuovo
distacco e con la consapevolezza di partire
per Londra accreditato della miglior prestazione
mondiale stagionale sulla 20 km e di
quella cosa che lui chiama semplicemente
“star bene” sulla 50 km, la sua preferita. Poi
si vedrà, ma intanto c’è una persona nuova.
– Che cosa vuol dire clausura, Schwazer?
«Una vita da monaco. Allenarsi, mangiare,
dormire, allenarsi. Allenarsi, mangiare, dormire,
allenarsi».
– Da Pechino a qui ha cambiato “conventi”,
perché?
«Quando ho lasciato Saluzzo, dove mi allenavo
prima, ho creduto di poter continuare
in Alto Adige, a casa mia. Ma non funzionava:
l’amico che ti tenta, la mamma che ti cucina,
troppe comodità. Per la marcia devi metterti
al livello dei tuoi colleghi dell’Est, che
hanno fame vera, entrare nelle loro scarpe,
imparare a pensare come loro».
– Dove ha trovato le scarpe dei russi?
«A Settimo Milanese, perché a Milano abita
Michele Didoni, il mio attuale allenatore,
la persona che mi ha dato fiducia quando
non ci credevo più. Lì capitano anche due settimane
filate di nebbia. Quando sono arrivato
mi sono detto: qui va bene. O dopo una
settimana torni a casa in lacrime dicendo che
non ne vuoi più sapere, o resti e affronti quello
che c’è da affrontare».
– Che cos’ha affrontato?
«Diecimila chilometri l’anno: 250 circa a
settimana, prima arrivavo a novemila al massimo.
È normale, si cresce, ma ci vuole testa:
senza, non riesci a fare fatica oggi e andare a
dormire sapendo che domani ne farai altrettanta
e dopodomani di più. A volte, lo ammetto, ho sognato un lavoro d’ufficio, un cartellino
da timbrare, per sedermi: però una
delle cose che mi danno soddisfazione in
questo momento è la stima delle persone
che si allenano con me, non per i risultati ma
per la serietà con cui faccio il mio mestiere».
– In mezzo cos’è successo, ha perso la fame?
«Ero arrivato a Pechino crescendo sempre
un po’, in fondo inconsapevole: quando ho
vinto la mia prima medaglia ai Mondiali, nel
2005, sono partito credendo di arrivare 20°,
fin lì se ero forte fisicamente il resto veniva.
Dopo Pechino, invece, ero il campione olimpico,
uno che tutti cercano, da cui si aspettano
tutti che vinca sempre: mi allenavo ancora,
ma avevo altre cose, attorno un’attenzione
che non conoscevo. Andavo in gara e mi
dicevo: vinco. Ma non era più come quando
non mi conosceva nessuno».
– È per questo che si è isolato?
«È stato facile, se non vinci non ti cercano.
Ma questa tranquillità, questa assenza di distrazioni
è nelle mie corde. Non è che io sia
scappato, ma l’essere solo con me stesso ad
allenarmi, senza riflettori, mi fa stare bene».
– Il fatto che la sua fidanzata, Carolina Kostner,
sia un’atleta la aiuta?
«Sì, anche se le esperienze non sono sovrapponibili
perché sono discipline diversissime.
Però è fondamentale avere accanto
qualcuno che comprende i sacrifici e non te
li fa pesare, ma li rispetta e li capisce. Diversamente
sarebbe impossibile».
– Ha mai pensato di non farcela?
«Dopo che sono ripartito, dopo l’infortunio
al ginocchio, mai. Ripensare alla fatica
che avevo fatto per arrivare a Pechino mi ha
impedito di buttare al vento tutto il lavoro
che avevo fatto da ragazzo. Ma dopo Barcellona,
quando non riuscivo più ad apprezzare il
valore di una medaglia d’argento nella 20
km, mi sono chiesto che senso avesse tanta
fatica. È stato quello il momento più duro».
- Nonostante l’argento, peggio dei Mondiali
di Deagu l’anno scorso, quando è arrivato
nono a due minuti dal primo?
«Sì. Senza Didoni forse non avrei accettato
di andare ai Mondiali sapendo di non essere
al 100%, a fare solo la 20 km con la prospettiva
di arrivare 15°. È stato bravo il mio allenatore
a imporsi; mi ha detto: “No, tu ci vai e
fai la tua esperienza anche se non sei in forma.
Finisci la gara, ti servirà”».
– Aveva ragione?
«Sì. Un atleta impara con il tempo a conoscere
le proprie sensazioni, a riconoscere
quelle che ha già provato. Didoni è una persona
di grande sensibilità, non si limita a dirti
“dobbiamo fare questo”, se capisce che
non ci sei con la testa ragiona con te finché
trova la soluzione. Sono fiero di averlo come
tecnico e come amico, se oggi vado a Londra
con una consapevolezza nuova lo devo anche
a lui. Quello che lui ha fatto a Deagu è la
prova che nemmeno il campione olimpico
può illudersi di fare da solo».
– A Londra si è iscritto a 20 e 50 km: che cosa
vorrebbe, medaglie a parte?
«Arrivarci esattamente come mi sono sentito
nelle ultime settimane. C’è chi dice che la
vita sia una specie di montagna russa che alterna
alti e bassi. Io adesso sento che sto salendo
ed è una bella sensazione, spero di conservarla
fino alla partenza. Se così sarà, partirò
con un sorriso».
– Si sente più forte rispetto a Pechino?
«Come persona sì. Sono più maturo, ho imparato
a soffrire: so che non devo avere paura
né del caldo, né del freddo, né della pioggia.
A Settimo ho sperimentato tutto e non
ho mai mollato».
– La sua soddisfazione, a parte vincere?
«Finire una gara con la coscienza a posto.
Non dovermi guardare dentro e pensare: potevo,
dovevo fare di più».
Siamo un popolo di santi e navigatori,
ma, tempi andati dell’esercito romano
a parte, di guerrieri solo per necessità.
Le missioni di pace, lo dicono gli
stranieri, ci vanno più a genio delle
missioni di guerra. Lo dicono nel bene:
elogiando le forze armate italiane
per il loro ruolo nella cooperazione.
Però quando si tratta di sport il
mestiere delle armi è mestiere nostro
(e non solo perché le forze armate
spesso danno di che vivere al nostro
sport). Semplicemente ci sta più
simpatico quando si tratta di uccidere
con una fucilata un piattello che sbuffa
polvere gialla e fucsia. Chiara Cainero
e Giovanni Pellielo a Pechino quattro
anni fa non hanno tremato nemmeno
sotto una pioggia che accecava lo
sguardo. Jessica Rossi è poco più che
una ragazzina, ma dalla fossa tira come
un cecchino.
Medaglie preziose, chissà
se capaci di esaudire le 25 auspicate
dal presidente del Coni, verranno
certamente dalle armi bianche, le
nostre preferite, quelle che nella storia
olimpica sono per noi una certezza
nei secoli fedele, che dei duelli veri
conserva soltanto il clangore del ferro
e un certo formalismo figlio del diritto
antico che li contemplava come mezzo,
quello sì all’ultimo sangue, di dirimere
le controversie. Le nostre squadre
di fioretto sono accreditate dei primi
posti in classifica mondiale. Ma anche
spadisti e sciabolatori hanno crediti
di peso e storie spesse di risultati.
E non è raro che le dispute per il
podio olimpico si giochino in casa, tra
compagni d’allenamento se non proprio
di stanza: non sarebbe neanche
peregrino, visti i valori sulla carta,
che Valentina Vezzali, portabandiera,
se la veda con Elisa Di Francisca, che
Cassarà si giochi la medaglia contro
Aspromonte, Avola o Baldini. Va bene
al resto del mondo che non siano
previste squadre miste, con duelli
stile Tancredi e Clorinda.
Però in fatto di duelli virtuali, come
sempre sono quelli dello sport,
potremmo fare anche il bel gesto di
lasciar scegliere l’arma all’avversario:
vantiamo tiratori scelti con la pistola
del tiro a segno (a Londra con Niccolò
Campriani) e con l’arco (Natalia
Valeeva, Marco Galiazzo, Michele
Frangilli e Mauro Nespoli), dove
non si scende dal podio dal 1996.
In mancanza d’armi, non siamo male
neanche con le mani, contro i giganti.
A Pechino abbiamo avuto tre medaglie
dal pugilato: con Roberto Cammarelle,
Clemente Russo e Vincenzo Picardi.
Sono tutti di nuovo in squadra
e si vedrà. Ci siamo stati, con meno
assiduità, anche nella lotta, nei
lontanissimi anni Ottanta del
minuscolo Vincenzino Maenza e
quattro anni fa con il colosso Andrea
Minguzzi, ma stavolta non ha staccato
il pass: su quel fronte siamo una
sporadica, benché gloriosa, presenza
di raro Occidente, in un mondo
dominato dal povero e profondo Est
dell’Asia centrale. Del resto anche
l’oro di Pechino brillava di più perché
inatteso. Quest’anno lotta per tutti
noi solo Daigoro Simoncini, uno che ha
un nome da paladino d’Orlando.
Impossibile in un mondo di ragazzi
– come per natura è quello olimpico –
non mettere in conto un mondo
d’amori. Alcuni discreti, come
la relazione tra Alex Schwazer
e Carolina Kostner, difesa per quanto
possibile dagli spioni sempre
in agguato; altri alla luce del sole,
magari amplificato dal riflesso
dell’acqua delle piscine, come
la liaison platealmente nata e molto
paparazzata di Filippo Magnini
e Federica Pellegrini.
Colpa un po’
della popolarità pregressa, un po’
del modo in mondovisione in cui la
freccia di Cupido è scoccata proprio
durante un Mondiale galeotto.
Difficile a quel punto nascondersi,
tanto valeva stare al gioco dei
rotocalchi, come hanno fatto Magno
e Fede, per la gioia
degli appassionati del gossip.
Ma l’amore olimpico non è una
novità di questi anni, c’è un legame
nato ai Giochi di Londra 1948,
che dura ancora: la storia
di una ragazza che si trovava in gita
in Inghilterra e di un giovane bruno
che era lì perché correva veloce.
Il giovane non vinse medaglie allora
ma è stato risarcito, dalla vita dice
lui: «Ho anche la medaglia, “alla
resistenza”: me l’hanno regalata gli
amici per i 55 anni di matrimonio».
Il matrimonio tra Ottavio e Rosita
Missoni: «Il merito del nostro
successo va tutto a lei. Sul lavoro
eravamo pari, ma quando si finiva
Rosita aveva una casa, tre bambini,
cinque cani e come asso di briscola
aveva me. Sono sempre stato dalla
parte delle donne, anche perché mia
madre era una donna. Sbaglio?».
Il resto della storia è noto, insieme
hanno inventato il mondo a righe e
il sodalizio dura da allora. Ottavio
Missoni non ha smesso di gareggiare,
l’atletica è ancora una passione:
anche se da poco come atleta master,
nel getto del peso, è passato di
categoria. La sua, a 90 anni, sarebbe
M 90, ma lui preferisce definirsi
Under 95, è il suo modo di aggredire
la vita e guardare avanti.
Forse l’idea non piacerà a Parigi rivale
di Londra nella candidatura 2012
e detentrice con il barone de Coubertin
del brevetto dell’Olimpiade moderna,
ma se c’è un luogo in cui soffia lo spirito
olimpico, versione a cinque cerchi della
cortesia, quel luogo è Londra, l’unica
sede prescelta tre volte. Da Londra passa
alla storia la più antica icona olimpica
dopo Fidippide, inventore suo malgrado
della maratona al tempo della Grecia
classica. Quell’icona è Dorando Pietri: idea
platonica della sconfitta epica, ma anche
della gloria imperitura a risarcimento.
Arrivò primo nella maratona di Londra
1908, con minuti di vantaggio. Non
bastarono, barcollò a pochi metri dal
traguardo. Chi lo sorresse ne decretò
la morte atletica: squalificato. Vincente
e squalificato. Conan Doyle era in tribuna
e lo raccontò, la regina Alessandra si
impietosì e volle premiarlo con una coppa
d’argento. Col risultato che nessuno
ricorda più Hayes, il vincitore, mentre
i baffi all’insù del pasticciere di Carpi,
gambe storte da italiano d’altri tempi in
gita, sono l’immagine inestinguibile dello
spirito olimpico che respira. Mai stato
più vero di così che partecipare contasse
più che vincere.
Ma Londra è spirito
che soffia anche in altri modi: nel 1948
sbarcò sul Tamigi la prima Olimpiade
del dopoguerra, e lì si concepì, anche se
all’inizio le sedi erano diverse, la prima
Paralimpiade della storia, pensata
dapprima più che altro come strumento
riabilitativo per chi in guerra aveva
lasciato pezzi di corpo e d’anima, ma
destinata a diventare negli anni quello
che ora è: sport, agonismo puro, voglia
di vincere. Che importa se con un senso,
una gamba, un braccio in meno: conta
lo spirito. Sarà un caso che proprio per
Londra si sia qualificato Oscar Pistorius,
primo amputato in corsa con i
normodotati? Forse c’entra qualcosa
“Il Redgrave”, che non è – come dicono
gli annali – Steve Redgrave, il canottiere
inglese che ha vinto cinque ori in cinque
edizioni, cioè sì lo è, ma è soprattutto
una categoria dello spirito, come vuole
Simone Barnes autore di The Meaning
of sport (il significato dello sport):
«Redgrave non è solo una persona è
anche una qualità. In ogni grande
momento dello sport», scrive Barnes,
«l’atleta che lo affronta deve avere dentro
un po’ di Redgrave. Scelgo di vincere o di
non vincere? La qualità di Redgrave è la
parte di te che non accetta compromessi:
la parte che ti porta per primo oltre
il traguardo, dopo aver già dato tutto ciò
che credevi di avere. Non ha a che fare
con il corpo, c’entra la mente. Quando un
atleta ovunque nel mondo vince qualcosa
in qualunque sport dovrebbe pagare
i diritti a Steve Redgrave». Se lo spirito
olimpico esiste, soffia sotto il Big Ben.