Si tratta di una vera e proprio radio-emergenza, nata per dare voce alla comunità siriana in fuga dalle violenze del Paese. "L'ora della Siria" (in arabo Al-Sa'a
Al-Suriyya) è il titolo del primo programma lanciato on air dalle frequenze di Radio Yarmouk, l'emittente dell'università di Irbid, a nord della Giordania, che gli ha dato ospitalità offrendo, una volta di più, un esempio tangibile dell'attenzione, della cura, del coinvolgimento emotivo dei giovani giordani rispetto al dramma dei loro "vicini". Avviato dalla ong "Un ponte per..." con il sostegno dell'Unesco e della Cooperazione svedese, il progetto coinvolge ragazzi e ragazze siriane nella produzione e trasmissione di notiziari sulla situazione dei rifugiati in Giordania. Nelle 16 tramissioni previste troveranno spazio esperti, medici e operatori di organizzazioni umanitarie per parlare di diversi temi, non solo strettamente legati al conflitto: sfruttamento minorile, tratta di esseri umani, educazione e accesso all'istruzione, servizi sanitari e violenze su donne e bambini. L'ora della Siria va in onda sue volte alla settimana dalle 17.00 alle 18.00: noi abbiamo contattato Sarah Gama, responsabile del progetto per conto di "Un ponte per...".
Andiamo con ordine: cos'è "L'ora della Siria"?
«Il
progetto si chiama “L’ora della Siria” ("Sa'a Surria" in arabo) – che è
diverso da "Il tempo della Siria" - proprio perché l'idea di questo
programma radiofonico è in realtà di dedicare un'ora ai siriani rifugiati in
Giordania.
Il
progetto di radio-emergenza è pensato per creare uno spazio in cui i rifugiati
siriani possano avere maggiori informazioni sui servizi offerti dalle diverse
organizzazioni presenti nel paese.
Dal
momento che il governatorato di Irbid ospita il maggior numero di rifugiati - il 40% secondo i dati dell'UNHCR -, la
migliore radio per trasmettere questo programma era Yarmouk FM, l’emittente dell’omonima
università di Irbid.
Si
tratta di una stazione strategica per la sua capacità di copertura, che
comprende l'intero governatorato, una parte del territorio circostante alla città
di Mafraq, e un raggio di 10 km al di là del confine con la Siria, e
precisamente fino a Dera'a.
La
trasmissione va in onda due volte a settimana, per una durata di sessanta
minuti a sessione.
Esperti e rappresentanti del governo giordano, personale delle
Nazioni Unite, di Ong internazionali, di organizzazioni locali e a base
comunitaria (CBO) sono invitati a fornire aggiornamenti sulla situazione
d’emergenza e a dare indicazioni sui servizi di assistenza disponibili per i
rifugiati, così come
sensibilizzare l'opinione pubblica e
rispondere alle
domande in diretta degli ascoltatori siriani che li possono contattare
attraverso per telefono o anche
attraverso la pagina facebook della
trasmissione.
Allo stesso tempo, il progetto coinvolge
attivamente dei giovani rifugiati siriani formati in comunicazione e
giornalismo, che realizzano reportage sulla condizione dei loro connazionali in
Giordania. Sono stati selezionati due ragazzi e una ragazza, di età compresa
tra i 19 e i 26 anni, tutti direttamente coinvolti con successo nella messa in
onda della trasmissione».
Perché e come è nata questa esperienza?
«In
questi mesi siamo stati testimoni di un incredibile aumento di rifugiati siriani
sul territorio giordano, e il perdurare della crisi non potrà che rendere
ancora più imponente il flusso di persone che attraversano il confine ogni
notte.
Ad
oggi, l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati in Giordania
(UNHCR) ha effettuato 160 mila registrazioni, ma il loro numero cresce
costantemente.
Tuttavia,
questi dati pubblicati non riflettono il reale numero degli sfollati, perché
non considerano tutti coloro che non vogliono registrarsi e quelli che non riescono
ancora a farlo.
Contemporaneamente, la maggior parte dei siriani già presenti in Giordania non
hanno accesso ai media e ad altre fonti di informazione, con la conseguenza che
non possono ricevere le cosiddette informazioni ‘salva-vita’.
I
rifugiati non sono direttamente coinvolti nelle operazioni di soccorso e questa
situazione talvolta li rende ostili verso gli interventi umanitari. Hanno pochi
contatti con gli operatori nazionali e internazionali e non c’è spazio per esprimere
problemi, opinioni, preoccupazioni ed esigenze. Sono soprattutto le donne e i
giovani a sentire la necessità di far sentire la loro voce, per uscire
dall’isolamento in cui sono costretti da mesi o addirittura anni.
Inoltre,
abbiamo notato che i rifugiati siriani sono affetti da ansia e traumi dovuti
agli eventi di cui sono stati vittima in Siria e a volte preferiscono restare
nell’ombra invece di rivolgersi agli operatori umanitari.
Questo
è il caso per esempio dei capi famiglie donne che hanno bisogno di servizi di
protezione speciali, ma si
scontrano continuamente con ostacoli di ogni genere.
È così che nasce l'idea di creare uno spazio per
la condivisione di informazioni e la libertà di espressione dedicato ai
rifugiati siriani in Giordania, nella speranza che possa contribuire a
migliorare le operazioni di soccorso e le loro condizioni di vita».
Quali sono le emergenze più immediate del
popolo siriano, sia dal punto di vista di chi è rimasto, sia da quello di chi è
scappato?
«Secondo le stime delle Nazioni Unite all'interno della
Siria sarebbero 4 milioni le persone - ovvero quasi un quinto della popolazione
pre-crisi – ad aver bisogno di assistenza umanitaria.
I tre governatorati più colpiti sono Aleppo, Homs e la
zona rurale di Damasco. In realtà, la Siria si trova ad affrontare un inverno particolarmente
rigido che ha ulteriormente aggravato la sofferenza soprattutto di coloro che
vivono in rifugi d’emergenza senza coperte e vestiti adeguati.
Purtroppo anche quelli che ancora riescono a restare nelle
proprie case spesso non le possono riscaldare a causa della
carenza di carburante e di energia elettrica.
Allo stesso tempo, il continuo lancio di razzi e bombe sui centri urbani sta
provocando la distruzione o il danneggiamento di tutte le strutture mediche presenti
nel paese, lasciando molti feriti senza cure.
Questo fa sì che il numero di siriani in fuga sia in costante crescita. Per
l'UNHCR, in Giordania la media giornaliera dei nuovi arrivi è notevolmente aumentata
nel corso del mese di gennaio. Se prima se ne contavano 500 ogni giorno, ora
sono almeno 730 le persone che tentano di entrare nel paese.
"Un ponte per ..." è direttamente coinvolto nelle operazioni di soccorso e
assistenza, qui come in Iraq.
Le esigenze principali dei rifugiati che vivono in Giordania sono legate alla necessità
di protezione e ai mezzi di sussistenza, come il pagamento dell’alloggio e dei
beni essenziali, dall’acqua potabile al cibo, ma hanno bisogno anche di cure
sanitarie, istruzione e assistenza psico-sociale.
Allo stesso tempo, la comunità di accoglienza è sempre
più sottopressione per via dell’aumento di profughi e quindi dei costi delle
risorse e dei servizi.
Nonostante gli interventi di diverse organizzazioni
umanitarie e del governo giordano, i cosiddetti ‘profughi urbani’ (che
rappresentano la maggioranza) appaiono estremamente vulnerabili e non tutti ricevono
aiuto.
In molti casi, è proprio la mancanza di
consapevolezza rispetto ai loro diritti e ai servizi esistenti a tenerli
lontani dai servizi a loro dedicati. Il nostro programma radiofonico vuole colmare
questa lacuna, guidandoli verso chi li può aiutare, in base alla loro
situazione».
Cosa può fare la comunità internazionale? Che
tipo di soluzione auspica?
«Il governo della
Giordania ha più volte espresso
e ribadito la sua volontà di mantenere le proprie frontiere aperte e la sua
politica di non-respingimento dei siriani.
I rifugiati hanno ricevuto assistenza sin
dall’inizio dell’emergenza da tutte le Ong e organizzazioni locali presenti sul
territorio.
In base alla nostra esperienza, siamo convinti
che
la scelta migliore per i rifugiati sia quella di vivere in città e non nei
campi profughi. E’ sicuramente questa la soluzione più sostenibile e dignitosa
che la comunità internazionale dovrebbe sostenere».
Che genere di interventi urgono?
«Servono sistemi di protezione dedicati ai più
deboli tra i rifugiati, in particolare a donne e bambini soli, in modo da
evitare il fenomeno dello sfruttamento sessuale e minorile.
Molti rifugiati non possono studiare, mentre
andrebbe incoraggiata e facilitata la frequenza scolastica.
Essendo cresciuto
il numero di rifugiati è anche necessario rafforzare le strutture sanitarie per
riuscire a rispondere alle esigenze di tutte le persone che hanno urgente
bisogno di cure mediche.
I casi di persone traumatizzate sono in crescita
a causa di un conflitto che ormai dura da due anni. Molti hanno bisogno di assistenza
psicologica, soprattutto se consideriamo che ormai ogni famiglia ha un lutto.
In questo contesto vanno sostenuti nella loro
vita quotidiana, aiutandoli ad acquistare il cibo, così come a trovare lavoro e
a pagare l’affitto degli appartamenti dove si sono rifugiati».