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L'Amarcord di Riccardo Cucchi: "Ho raccontato la vita in ogni partita"

09/01/2020  Così una delle voci storiche di Tutto il calcio ha raccontato a Fc il suo giro del mondo attorno al pallone dopo essersi commosso all'ultima telecronaca

In occasione del 60° anniversario di Tutto il calcio proponiamo l'intervista che Riccardo Cucchi, una delle voci storiche ci ha concesso, nel 2017 dopo che il suo saluto commosso per l'ultima radiocronaca aveva fatto il giro d'Italia.

 

Alla fine del suo giro per gli stadi del mondo da radiocronista Rai, Riccardo Cucchi ha avuto il complimento meno scontato dalla curva di San Siro, lato Inter, così: «A te il nostro applauso per averci emozionato davvero in un mondo finto, Riccardo Cucchi simbolo del nostro calcio». Paradosso nel paradosso il fatto che la riconoscenza per le parole garbate – dal tempo di «Scusa Ameri...», cifra stilistica di Tutto il calcio minuto per minuto – venga dalla curva, luogo per definizione esagitato, in cui si sbraita in libertà.

In tempi in cui lo stile, verrebbe da dire “l’ostile”, da stadio contagia le alte sfere del dibattito pubblico: «Credo», racconta Cucchi, neopensionato, tra il divertito e il lusingato, «che quello striscione sia il loro modo di dirci che nel calcio del business non si sentono clienti ma appassionati, e che nella nostra voce riconoscono il lato romantico».

Impossibile non domandare se, dopo tanti scandali e 38 anni di partite, non abbia mai rischiato di finire prigioniero dell’abitudine, svuotato dalla disillusione, fino a vedere nel pallone quello che ci vede chi non lo ama: ventidue sfaccendati in mutande in affano dietro a una palla. «Non ho tenuto il conto delle partite, ma nessuna è uguale all’altra e ogni radiocronaca è una storia a sé: al di là del gesto tecnico, del gol, del fuorigioco, in ogni partita c’è la parafrasi della vita. Quello che ancora mi incuriosisce è il lato psicologico: cadere, rialzarsi, reagire, alzare la testa, ripartire. È la vita: il nostro lavoro è saper trasmettere anche quella.

Ho avuto l’onore di raccontare la maratona di Gelindo Bordin, all’Olimpiade di Seoul: ci vedo ancora la vittoria dell’uomo contro sé stesso. Ogni volta che vedevo la gioia per un gol o per uno scudetto, pensavo che la mia voce serviva a propagarla». Più difficile fare i conti con i momenti in cui la cruda realtà s’incarica di smascherare a distanza magheggi e maneggi nascosti dietro un risultato creduto vero: «È impossibile sospettare durante la radiocronaca: fanno autogol, pensi alla papera, non hai elementi per vederci una volontà perversa. Posso dire che le volte in cui m’è capitato di scoprire a posteriori che una partita era truccata, mi sono sentito il primo tradito: io raccontavo onestamente una cosa che altri avevano manovrato. Dobbiamo fare di tutto per evitare che questa deriva travolga tutto, gli anticorpi ci sono, bisogna che lavorino. Il business non è cattivo in sé, dipende da come lo fai. Una palla che rimbalza porta allegria: è bastato che Totti calciasse verso il pubblico a Sanremo perché si accendesse l’Ariston. Il calcio vive degli appassionati che si sobbarcano viaggi incredibili, perdendo il sonno per la squadra del cuore; dei 10 mila napoletani a Madrid: la sfida è tenere i conti in ordine senza fare a pezzi la passione». La stessa che Cucchi ha imparato da bambino e preservato: «Avevo otto anni, ascoltavo Tutto il calcio con mio padre: così ho cominciato ad amare il calcio e la radio e a sognare questo lavoro. Mi fa tenerezza quando ragazzi di vent’anni mi scrivono che anche a loro è capitato così.

La mia partita del cuore è la finale di Berlino 2006: dar voce all’Italia che vince i Mondiali è un privilegio che ho condiviso solo con Carosio e Ameri, scusate se è poco. È l’unico momento in cui a un radiocronista è concesso lasciarsi trasportare dal tifo. Dopo, ero così carico di adrenalina che ho vagato per la città tutta la notte: non riuscivo a dormire».

Se Berlino è stata il suo paradiso, Catania 2007 è stata l’inferno: «Catania- Palermo è la partita che non avrei mai voluto vedere: farei di tutto per riavvolgere il nastro del sabato in cui mi toccò raccontare la morte assurda del commissario Filippo Raciti. Quella sera si fermarono i Campionati. Ma noi di Tutto il calcio decidemmo di andare lo stesso, la domenica, sui campi cui eravamo assegnati: per raccontare l’insensatezza di ciò che era accaduto. Per dare l’idea del nulla che quell’omicidio orribile aveva messo al posto della gioia del pallone».

Ai giovani che seguono le sue orme ripete: «Leggete, leggete, leggete. Fate scorta di parole perché la radio vive di quelle: più ne sapete meglio comprendete. Si pensava che le immagini, sempre più invadenti e superficiali, avrebbero stritolato il nostro piccolo mondo antico e invece no: proprio ora che il calcio pretenderebbe giorni di dedizione davanti alla Tv, chi vive la vita quotidiana ha bisogno della nostra voce che trasmette emozioni a tutti coloro che non hanno tempo di fermarsi a guardare».

 
 
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