Quale eredità possiamo raccogliere dal cardinale Carlo Maria Martini a un anno dalla sua morte? Proverò a rispondere a
questa domanda rifacendomi a un’idea
a lui molto cara, centrale nella spiritualità
e nella lingua di sant’Ignazio di Loyola:
l’idea della riverenza. Ne avevamo parlato
una volta, mentre riflettevamo insieme
su quale fosse l’atteggiamento più
consono al cristiano davanti alla complessità
delle relazioni, in cui si sviluppa
la vita. Cercavamo risposta in alcuni dei
modelli di santità.
Da parte mia, avevo ricordato l’“ascolto”
monastico, cui san Benedetto invita
sin dalle prime parole della sua Regula
monachorum: «Ascolta, o figlio, gli insegnamenti
del maestro». Avevo anche richiamato
la “custodia” francescana, vissuta
dal Poverello, custode del giardino
di Dio, nel rapporto verso tutte le creature,
come fa intendere il Cantico di frate
sole.
Il cardinale mi parlò della riverenza
ignaziana, quel rispetto profondo che
nei confronti dell’Altissimo si fa adorazione
e che investe anche il rapporto verso
ogni creatura. Citò il principio e fondamento
degli Esercizi: «L’uomo è creato
per lodare, riverire e servire Dio nostro
Signore e salvare così la propria anima».
Richiamò la contemplazione per ottenere
l’amore, un riverente riconoscere il dono
dall’alto in tutto ciò che esiste.
Martini ha vissuto questa riverenza
anzitutto nei confronti di Dio: sta qui
la radice ignaziana della sua spiritualità
e della sua proposta circa il primato della
«dimensione contemplativa della vita
». Tutto nasce dal fare l’esperienza
dell’ineffabile vicinanza divina. Non si
tratta certo di una semplice emozione,
quanto piuttosto di educarsi a percepire
le mozioni interiori con cui lo Spirito guida
i credenti, grazie a un costante impegno
di unione con Dio.
Chi ha conosciuto il cardinale Martini sa quanto intensa
e profonda fosse in lui questa riverenza,
al tempo stesso docile e inquieta, luminosa
e oscura.
Il rispetto adorante dovuto alla divina
Presenza era, peraltro, un atteggiamento
che lo aveva preso sin da piccolo, come
testimonia il racconto che lui stesso
ebbe a farmi del primo momento della
sua vocazione: ad appena cinque anni,
entrato in una chiesetta di montagna,
era rimasto come incantato davanti alla
lampada accesa accanto al tabernacolo,
percependo in maniera chiarissima come
potesse essere bello vivere tutta la vita
davanti al Signore e per lui.
In Martini la riverenza verso il divino
si concretizzava nell’amore alla parola
di Dio: è questo che spiega la cura
con cui egli accostava il testo biblico
ed è ciò che fa capire come il cardinale
non si fermasse a una lettura meramente
filologica delle Scritture, ma avvertisse
l’urgenza di nutrirsi della Parola di vita,
affinché essa inondasse della sua luce
tutti gli spazi dell’anima.
Prima di
proporla al suo popolo come via di un
rinnovato incontro con la Bibbia, Martini
aveva a lungo sperimentato la fecondità
della lectio divina. Le quattro tappe,
da lui costantemente indicate per farne
esperienza, corrispondono a una frequentazione
del testo ispirato, animata
dall’intenzione di trovarvi ragioni di vita
e di speranza, eloquenti per le donne
e per gli uomini d’oggi.
- Così, la prima tappa, la lettura propriamente
detta, vuol rispondere alla domanda:
«Che cosa dice il testo in sé?», e
nasce dal desiderio di rispettare la Parola
nella sua oggettività e perfino nella
sua lontananza.
- La seconda tappa è la
meditazione, intesa come sosta interiore
nella quale raccogliersi e chiedere a Dio:
«Che cosa mi dici con queste tue parole?».
- La terza tappa, l’orazione, è il momento
in cui rivolgersi al Signore in
un’umile risposta d’amore.
- La tappa finale
sta nell’invitare Dio ad abitare nel
nostro cuore, perché sia lui a trasformarci
e ad accompagnare i nostri passi. È la
contemplazione, quella condizione in
cui il cuore, toccato dalla presenza di Cristo,
si chiede: «Che cosa devo fare per realizzare
questa Parola?», e si decide a farlo.
A volte potrà sembrare che la Parola
letta non dica niente: occorrerà allora ritornare
a essa senza farle violenza e invocare:
«Signore, dammi vita secondo la
tua parola!» (Sal 118,107).
Il rispetto riverente verso il Mistero
Santo ci farà comprendere che Dio parla
anche col suo silenzio e che in silenzio
la sua Parola va accolta nel cuore: «Il
Padre pronunciò una parola, che fu suo
Figlio, e sempre la ripete in un eterno silenzio;
perciò in silenzio essa deve essere
ascoltata dall’anima» (san Giovanni
della Croce, Sentenze. Spunti di amore,
n. 21).
È ancora l’atteggiamento della riverenza
quello che ispirava i rapporti ecclesiali
di Carlo Maria Martini: non si
trattava solo del rispetto dovuto ai superiori
religiosi o della profonda venerazione
da lui nutrita verso il successore di
Pietro, ma anche della sua attenzione a
ogni membro del popolo di Dio, quale
che fosse la sua età o responsabilità o
maturazione nella vita di fede.
Un passaggio degli Esercizi spirituali
di Ignazio fa ben comprendere che cosa
significhi ispirare questi rapporti alla riverenza:
«Un buon cristiano deve essere
propenso a difendere piuttosto che a
condannare l’affermazione di un altro.
Se non può difenderla, cerchi di chiarire in che senso l’altro la intende; se la
intende in modo erroneo, lo corregga
benevolmente; se questo non basta, impieghi
tutti i mezzi opportuni perché la
intenda correttamente, e così possa salvarsi
» (n. 22).
Chi ha conosciuto il cardinale sa come
ciascuno di questi passi fosse da
lui scrupolosamente osservato. Da
quest’atteggiamento di rispetto derivava
in Martini il desiderio di una maggiore
collegialità nella vita ecclesiale: non si
trattava in alcun modo di una pretesa anti
gerarchica o ispirata da quello che von
Balthasar aveva definito l’«affetto anti romano
».
L’arcivescovo di Milano era fermamente
convinto del ruolo decisivo del
successore di Pietro nel confermare i fratelli:
il maggior sviluppo della collegialità
episcopale, da lui auspicato, voleva essere
precisamente un aiuto all’esercizio
il più possibile snello ed efficace del ministero
petrino, oltre che una via per favorire
l’effettiva sollecitudine per tutte le
Chiese, di cui ogni vescovo è partecipe
nel collegio episcopale.
Nei rapporti, poi, con l’insieme del popolo
di Dio quest’atteggiamento di rispetto
per tutti si traduceva nella volontà di
promuovere la “sinodalità”, intesa come
partecipazione e corresponsabilità di
ogni battezzato, secondo il dono ricevuto
e il ministero esercitato, nei processi decisionali
e nelle realizzazioni pastorali della
Chiesa. Una comunità dove tutti si sentissero
responsabili e ognuno lo fosse effettivamente
in accordo con la vocazione
ricevuta da Dio: tale era il popolo dei battezzati
nel “sogno” di questo grande successore
di Ambrogio.
Infine, l’atteggiamento ignaziano della
riverenza era alla base anche del modo
di porsi di Martini nei confronti della cosiddetta
cultura laica, dei non credenti e
di tutti i possibili cercatori di Dio: il cardinale
sapeva accogliere tutti, ascoltare tutti,
non imporsi a nessuno. Allo stesso
tempo, ascoltando le ragioni dell’altro,
sapeva crescere nella consapevolezza del
dono di credere e riusciva a camminare
con l’altro, senza forzature né compromessi,
sui sentieri dell’obbedienza alla
verità. Anche in questo senso, Martini
era un fedele discepolo di Ignazio di
Loyola, i cui esercizi spirituali sono stati
non a caso definiti dal linguista e semiologo
francese Roland Barthes «il libro della
domanda, e non della risposta», e cioè
la grande pedagogia della mente e del
cuore per mettersi in ascolto dell’Altro e
lasciarsi visitare dal suo possibile dono.
La “Cattedra dei non credenti” è stata in
tale prospettiva una scuola di esercizio reciproco
della riverenza per tutti, credenti
e non credenti, e proprio per questo un
luogo d’incontri sorprendenti, di approdi
luminosi, di scoperte salutari.
Resta da chiedersi se quanto s’è detto
aiuti a valutare la prossimità o la
lontananza del cardinale da papa Francesco.
Le diversità sono evidenti: espressione
del Nord del mondo l’uno, dalla tipica
cultura europea, raffinato cultore di
scienze bibliche, perfino aristocratico
nell’impressione che suscitava in chi non
lo conoscesse, data la sua innata timidezza;
venuto «dalla fine del mondo» l’altro,
espressione dell’anima latinoamericana,
dall’umanità calda e comunicativa, dalla
cultura vasta e insieme legata all’esperienza
del servizio alle periferie geografiche
ed esistenziali, testimone convinto
della scelta preferenziale dei poveri e della
povertà come stile di vita. Eppure, fra
questi due poli, il legame mi sembra fortissimo:
esso sta proprio nell’identità spirituale
plasmata alla scuola di Ignazio e
della riverenza. In questo senso, tanto sul
piano del primato di Dio, quanto su quello
del desiderio di una Chiesa di cristiani
adulti e corresponsabili, dove collegialità
e sinodalità siano di casa e dove ognuno
possa sentirsi accolto e amato, Bergoglio
e Martini sono vicinissimi, fino a poter intravedere
nel Papa che Dio ha voluto oggi
per la sua Chiesa la realizzazione della
speranza e della preghiera, sulla quale si
era chiusa appena ieri – come su una soglia
affacciata al domani – la vita del grande
successore di Ambrogio.