John Huston sul set de La Bibbia, nel 1966.
Dall'arca di Noè all'automobile 1966. Sulla strada statale Pontina, 68 chilometri che congiungono Roma a Latina, a un certo punto, dalle parti di Pomezia, lontana ma ben visibile agli automobilisti, spostata di lato rispetto al senso di marcia, appare una “cosa” che sembra un capannone. È l’arca di Noè. Nel senso che laggiù, lontano dalle Lancia Fulvia e dalle Fiat 500 che vanno da una all’altra città, John Huston sta girando La Bibbia. E tutti guardano, in corsa, quell’enorme arca immaginando di rivederla quando il film uscirà, di lì a pochi mesi.
Strade da percorrere, città che si avvicinano, auto per la gita, e il cinematografo. In quei pochi secondi di strada c’è l’Italia che ha appena lasciato da parte il boom economico per un periodo più faticoso e meno dorato. E anche il cinema soffrirà. Compresi John Huston, la sua Bibbia faraonica e il suo produttore, Dino De Laurentiis, che ha costruito Dinocittà per farne una specie di reggia produttiva delle sue troppo spesso mirabolanti quanto difficilmente praticabili idee. Da anni, infatti, De Laurentiis s’è messo in testa di far girare la Bibbia, tutta, a più registi assieme, da Fellini a Kurosawa a Losey, dividendola in episodi che al botteghino dovrebbero premiare l’audacia del produttore più megalomane d’Italia. Alla fine, solo John Huston accetta l’impresa, ovviamente rivedendo al ribasso l’idea iniziale.
È un successo, pur se il rivale di De Laurentiis, Carlo Ponti, avrà la meglio in quel 1966 con Il dottor Zivago, ma gli oltre 3 miliardi di lire dell’epoca confermano l’attenzione che il pubblico continua ad avere per l’argomento religioso portato sul grande schermo. Eppure, la Bibbia, la vita di Cristo, l’Antico e il Nuovo Testamento, perfino i Vangeli apocrifi, hanno sempre stazionato nei set di tutto il mondo, fin dalle origini della settima arte. Tanto che il critico e storico del cinema Claudio Villa non ha potuto fare a meno di scrivere che «in principio era il cinema».
Giustissimo, perché produttori e registi hanno subito individuato nella vita di Gesù, nei testi biblici, nelle vicende sacre, ottimi spunti per attrarre il pubblico, certo, ma anche per mettersi alla prova tecnicamente. Francia, Stati Uniti, Italia, un po’ tutti i Paesi che alla fine dell’Ottocento comprendono quanto la fotografia in movimento possa pendolare fra arte e industria, si lanciano con entusiasmo nei fatti biblici. Su tutti, la Passione di Cristo, episodio che ancora oggi resta tra i più ricercati dalle case di produzione e dagli autori.
Cecil B. De Mille sul set de Il segno della croce, con Claudette Colbert e Fredric March.
Datemi una Bibbia, ne farò un film
Tra i motivi che inducono il mondo del cinema a realizzare film biblici, ce n’è uno che appare spregiudicato, se vogliamo, ma che alla fine ne costituisce l’essenza: i dialoghi, pochissimi. Potrebbe sembrare, a prima vista, un problema mentre, al contrario, diventa una risorsa, un vantaggio su cui speculare. I registi e gli sceneggiatori, infatti, possono “inventare” situazioni di dialogo prendendo spunto da quei testi. Che poi questo metodo sia ortodosso o eccessivamente fantasioso, la storia del cinema è lì a confermarlo con i vari giudizi su questo o quel film.
Non a caso, Cecil B. De Mille, uno degli autori della Hollywood dei tempi d’oro, autore di due edizioni de I dieci comandamenti (la prima del 1923, il remake del 1956, sua ultima regia) diceva, con una certa arroganza ma perfettamente cosciente del “tesoro” di idee dei sacri testi: «Quando sono a corto di idee mi tuffo nella Bibbia e trovo sempre qualcosa da raccontare. Datemi due pagine qualunque della Bibbia e vi faccio un film». Vero: oltre ai comandamenti, De Mille nel 1949 dirige un Sansone e Dalila di buon successo di pubblico. E prima ancora, nel 1932, gira Il segno della croce.
Dunque, per ammissione di un autore, dalla Bibbia si possono cogliere decine di spunti per un film. O, se preferiamo, la Bibbia è un soggetto cinematografico! Lo conferma Robert Moore, vicepresidente della Paramount che, intervistato dal Wall Street Journal, col cinismo tipico dell’imprenditore, chiosa: «Sciagure, piaghe, diluvi, sacrifici, tradimenti, fatti inspiegabili alla X-Files: nella Bibbia c’è di tutto».
Anche Louis e Auguste Lumière hanno raccontato in un film la Passione di Cristo.
La Passione dei Lumière e Gesù sulle acque di Méliès
Fatto sta che fin dal 1897 Gesù, la sua vita, la sua morte, la sua resurrezione, appassionano tutti i registi. Perfino i fratelli Lumiere, così poco inclini alla… fiction e più dediti al documentario, si buttano con entusiasmo proprio sulla morte di Gesù Cristo, con Passion de Horitz, una ripresa scenica della Passione rappresentata a Horitz, in Boemia. Tredici le scene, 17 i metri di pellicola per ognuna di esse: L’adorazione dei Magi, La fuga in Egitto, L’arrivo in Gerusalemme, Tradimento di Gesù, Risurrezione di Lazzaro, La cena, L’arresto di Gesù Cristo, la flagellazione, L’incoronazione, La crocifissione, Il calvario, La deposizione nel sepolcro, La risurrezione.
Più che di un film, si tratta di una serie di quadri in movimento, com’è tipico del periodo iniziale del cinema, ma il solco è già tracciato. Georges Meliès, per non essere da meno, attratto com’è dal “fantastico”, gira un Christ marchant sur les eaux, perfettamente nelle corde dell’autore del Viaggio sulla luna. Ed è sempre la Passione a infervorare gli Stati Uniti con numerose pellicole dove Cristo è sulla croce. Anche perché per la Bibbia non si paga alcun diritto d’autore: dominio pubblico…
Ferdinand Zecca e Charles Pathé sorridenti per i loro successi con gli episodi tratti dai testi sacri.
Leopoldi Fregoli diventa Gesù
Va così pure in Italia, dove Luigi Topi ed Ezio Cristofari girano una Passione di Gesù interpretata da Leopoldo Fregoli, attore e trasformista celeberrimo e di sicuro richiamo per il pubblico. E in Francia, Ferdinand Zecca e Lucien Nonguet realizzano La vie et la passion de Jésus-Christ, opera colossale (e il termine, vedremo, avrà un senso appropriato pochi anni più tardi). L’idea è mastodontica: 42 scene realizzate in cinque anni, dal 1902 al 1907, che illustrano: L’annunciazione, La stella misteriosa, L’adorazione dei Magi, La fuga in Egitto, La sacra famiglia, L’infanzia di Gesù, Gesù tra i dottori, Le nozze di Cana, La samaritana, Gesù cammina sulle acque, La risurrezione di Lazzaro, La trasfigurazione, L’entrata in Gerusalemme, I mercanti del tempio, L’ultima cena, Il giardino degli ulivi e il bacio di Giuda, Pilato, La flagellazione, Gesù presentato al popolo, Gesù cade sotto la croce, La crocifissione, La morte di Cristo, La sepoltura, La risurrezione, L’apoteosi.
I due autori, peraltro, innamorati della loro opera, colorano a mano ogni fotogramma, com’è tipico dell’epoca; la fatica ottiene un buon riscontro di pubblico, se si pensa che le proiezioni proseguiranno fino al 1920.
Intanto, sulla scorta del successo delle varie Passioni, inizia un vero e proprio genere tratto dai racconti biblici o religiosi in genere, che unisce il tema della vita di Cristo a quello dell’antica Roma; ecco, allora, nascere i vari Quo vadis?, Sansone, Ben Hur. Ma è sempre la morte di Gesù l’argomento più richiesto e nel 1906 il francese Charles Pathé, per Passione di Nostro Signore Gesù Cristo utilizza per la prima volta attori di teatro. Fino ad allora, infatti, numerose voci ecclesiali s’erano opposte inesorabilmente e i produttori preferivano dilettanti o attori presi dalla strada o, ancora, figuranti delle varie sacre rappresentazioni, per non avere guai.
S’apre, così, una nuova via e nuovi personaggi irrompono sulla scena da protagonisti. Non c’è più solo Gesù da inquadrare in primo piano ma anche Giuda, o Maria. Gli attori e le attrici s’impegnano nella recitazione in quel modo plateale derivato dal teatro ora per il traditore di Gesù, quasi sempre torvo, dai comportamenti e dalla gestualità aspra se non folle, ora per quello della madre di Cristo, lacrimosa e consapevole del proprio straziante dolore di fronte alla sorte del figlio.
È un modo di recitare che oggi appare convenzionale, superato, eccessivo, ma che a quei tempi suscita entusiasmo tra il pubblico, che chiede un’interpretazione così “evidente”, sottolineata, sopra le righe.
Cabiria, di Giovanni Pastrone, kolossal trionfale per il cinema italiano.
Kolossal, peplum e sandaloni
Quanto alla parola kolossal, è proprio l’Italia che ne dà esempio, con il Quo vadis? del 1912 di Enrico Guazzoni: oltre 5.000 comparse, un set finalmente non più racchiuso da tre teli o pareti, scenografie che sfidano l’immaginazione, due anni di riprese per un film che dura due ore, all’epoca un’enormità. Guazzoni ha capito tutto: il film è un successo mondiale tanto che a Londra viene proiettato alla presenza del re Giorgio V, il quale ha parole d’encomio per il regista e gli attori. Attenzione, però. C’è un’altra novità in questo film. Stavolta, la storia viene tratta da un romanzo e non da un testo sacro, pur orientando decisamente la vicenda verso il rapporto tra Roma e la cristianità.
Nerone e Ursus, Tigellino e Poppea, ma anche San Pietro e perfino Anchise sono tutti in scena appassionatamente, aprendo le porte al cosiddetto genere “peplum”, che anni più tardi i romani, alla loro maniera scanzonata e ironica, definiranno in altro modo: i film dei “sandaloni”, per via dei calzari indossati dagli attori. Si mischiano la Storia e l’invenzione letteraria con la religione e la mitologia, dando al mondo del cinema uno slancio verso il successo di pubblico e di critica enorme. Tanto che due anni più tardi, nel 1914, Giovanni Pastrone girerà Cabiria, con le didascalie di Gabriele D’Annunzio, altro kolossal sui miti dell’antichità, religiosa e non.