Non è tutto negativo, secondo Rosy Bindi, presidente della
Commissione nazionale antimafia. «Anzi, che i non in regola siano soltanto 14 su 3.500
candidati che abbiamo preso in esame in Comuni o sciolti per mafia o che
avevano avuto la commissione prefettizia, è una bella sorpresa. Si trattava di situazioni
critiche, esposte. Il fatto di aver trovato le liste dei partiti, soprattutto del
consiglio comunale di Roma, in regola con la legge Severino e persino con il
codice di autoregolamentazione della Commissione è il risultato di una maggiore
attenzione delle forze politiche. Un po’ credo che sia anche merito dei
richiami della Commissione, pur in mezzo alle polemiche che ricorderete».
Una
brutta sorpresa, invece, è stata quella di «non trovare nei Comuni che abbiamo
analizzato e che sono tutte realtà a rischio, più volte sciolte per infiltrazioni
mafiose, i simboli dei partiti, ma le liste civiche». Secondo la Bindi «non si
tratta, come si pensava un tempo, di una sorta di riscossa della società civile
anche nei confronti della crisi dei partiti. Spesso, invece, in questi paesi la
lista civica è segno, da un lato, di deresponsabilizzazione delle forze
politiche nazionali e dall’altro è uno strumento di trasformismo politico, di
mimetizzazione di alcuni personaggi o di alcuni pezzi di forze politiche non
del tutto trasparenti. Questo dimostra la fragilità della politica e la
mancanza di investimento da parte dei partiti nelle zone a rischio del nostro
Paese. Abbiamo verificato che, anche laddove i certificati penali sono a posto
ci sono situazioni di parentela, di frequentazione, di appartenenza alle organizzazioni
mafiose che si sono in qualche modo infiltrate nelle liste».
Le liste civiche, dunque, «anche quando nascono con le
migliori intenzioni, in alcune circostanze, di fatto si rivelano cavallo di
troia per le organizzazioni mafiose, ma soprattutto indeboliscono la forza
della politica perché sono lo strumento principale per operazioni
trasformistiche». L’invito della presidente della Commissione antimafia è
allora a porsi seriamente questo problema. La Bindi parte da casi eloquenti,
dal comune di San Luca, in Calabria, nel quale non si voterà per la terza volta
consecutiva. O da quello di «Platì dove le uniche liste sono civiche e di
persone tutte appartenenti in qualche modo alle amministrazioni precedenti che
sono state sciolte per mafia».
La Bindi si chiede allora, e chiede alla
politica se «si vuole fuggire da queste situazioni, se si pensa di dare
risposte improvvisate o, al contrario, se non è venuto il tempo di fare un vero
investimento di classe dirigente, di impegno radicale con i problemi di quelle
comunità per dimostrare che quando la politica e quando i partiti che hanno
classe dirigente, idee, progetti, radicamenti storici vogliono fermare la mafia
riescono a farlo».
La presidente della Commissione denuncia il rischio
che queste «comunità restino in qualche modo abbandonate a se stesse» e chiede
maggior impegno per «cambiare la legge sui comuni sciolti per mafia e i procedimenti
elettorali. I partiti nazionali, inoltre, devono darsi una strategia per le
realtà che sono compromesse per insediamento e infiltrazioni mafiose partendo
dalla considerazione che le mafie di oggi hanno scelto gli enti locali come porta
per condizionare la politica e la pubblica amministrazione. Prima cercavano i
rapporti con i capi nazionali e con i parlamentari, oggi quello che interessa è
l’assessore, il sindaco, il consigliere regionale. E l’altro grande capitolo è
l’intervento sulla pubblica amministrazione perché la difficoltà di riscatto di
queste comunità dipende in larga parte dal fatto che i politici vanno a casa ma
gli amministratori restano e spesso sono quelli che sono compromessi».