Professore emerito di diritto Costituzionale, nove anni in Corte costituzionale di cui è stato presidente, Valerio Onida si è schierato con decisione sul fronte del “no” alla riforma costituzionale.
Professor Onida, perché no?
«Diverse ragioni di merito e di metodo. Din metodo, perché è un “pacchetto”, non una revisione su un tema specifico cui si possa rispondere “sì” o “no”; perché è stata portata avanti come una riforma di maggioranza, mentre una Costituzione non dovrebbe mai essere espressione solo di maggioranza. Nel merito, quanto al bicameralismo, si parte da un’idea giusta, il Senato come Camera rappresentativa delle Regioni, ma la si attua male perché, per come sono eletti, i consiglieri regionali non porterebbero in Senato la voce unitaria della loro Regione, ma la voce dei rispettivi partiti, e perché le funzioni del nuovo Senato sarebbero debolissime, proprio per ciò che riguarda la legislazione di maggiore interesse per le Regioni. Per quanto riguarda poi i rapporti fra Stato e Regioni, si fa una scelta radicalmente centralista».
Ma almeno si ridurrebbe il contenzioso Stato/Regioni, o no?
«Il contenzioso non deriva dalle “competenze concorrenti” tra Stato e Regioni, ma dal fatto che lo Stato non ha attuato la riforma del 2001: lo Stato, nelle materie di competenza delle Regioni avrebbe dovuto fare solo “leggi quadro” e invece non se n’è vista neppure una, è questo che per lo più genera contenzioso. Qui si cambierebbe totalmente il “verso” della riforma del 2001 (e perfino del testo originario del 1948), trasferendo alla competenza esclusiva dello Stato anche le materie più “tipiche” delle Regioni, come governo del territorio, servizi sanitari e sociali, istruzione professionale ecc. Così si torna in pieno al centralismo».
Non condivide neppure l’idea che con un “no” si darebbe al mondo l’idea di un Paese fermo?
«Un Paese è fermo quando non fa le cose che dovrebbe fare nell’economia, nelle politiche sociali, nella giustizia. La riforma della Costituzione non è una prova di dinamismo, le Costituzioni sono fatte per durare. Sarebbe grave se si considerasse la Costituzione a disposizione delle maggioranze che si susseguono nel Paese.
Non approva neppure il superamento del bicameralismo paritario?
«Si può convenire che non abbia molto senso che entrambe le Camere diano la fiducia al Governo, ma riguardo alla formazione delle leggi il bicameralismo serve anche a correggere errori e a consentire migliore riflessione. Non è vero che abbiamo un procedimento che rallenta troppo la formazione delle leggi: ne facciamo già troppe, spesso in contraddizione tra loro, e continuamente modificate anche a breve distanza di tempo. Il nostro problema è l’instabilità delle leggi: si decide una cosa, dopo poco la si modifica e poi ancora».
Si direbbe che nel “sì” e nel “no” si scontrino anche due culture, è così?
«Questa riforma ha dietro di sé la cultura della fretta: è vero che ci sono decisioni che in politica devono essere prese d’urgenza, ma molte altre vanno meditate; e i procedimenti costituzionali non sono fonte di ritardi, semmai la colpa è della politica. Ha dietro di sé la cultura della politica esclusivamente come scontro, ma in politica c’è bisogno anche di confronto costruttivo (e qui occorre tener conto anche della legge elettorale, ispirata all’idea che un solo partito debba avere la maggioranza assoluta e governare, quale ehe sia il consenso elettorale da cui muove. Mentre con la riduzione del numero dei parlamentari (però dei soli senatori) e con altre modifiche si strizza l’occhio all’antipolitica. Si può discutere di quale sia il numero giusto di componenti di un’assemblea, ma non ha senso ridurre per ridurre, e solo in una Camera. Se poi si vuole parlare dei costi, occorre dire che, certo, le istituzioni hanno un costo, è il costo della democrazia, e non ha proprio senso fare queste riforme “per risparmiare”. Se poi si vuole dire che, per esempio, le indennità degli eletti sono troppo elevate, qui la Costituzione non c’entra: è la legge ordinaria che le stabilisce, si modifichi la legge. Inoltre riducendo solo il numero dei senatori, e lasciando invariato quello dei deputati, si crea uno squilibrio nel Parlamento in seduta comune, che è chiamato fra l’altro a eleggere il Presidente della Repubblica».