Si può portare un coltello alla cintura, se lo si porta senza intento offensivo perché lo impone un precetto religioso? La sentenza 24084 della I sezione penale della Cassazione, respingendo un ricorso di un immigrato indiano di religione Sikh, che aveva addotto la libertà religiosa come “giustificato motivo” per il kirpan il pungnale rituale, ha detto di no.
La Suprema corte specificando che il reato contestato «ha natura contravvenzionale, è punito anche a titolo di colpa», ha escluso che ricorra «il "giustificato motivo"», previsto come scriminante dalla Legge n. 110 del 1975, art. 4, comma 2 (è vietato portare l’arma a meno che non lo si faccia con giustificato motivo).
Per meglio esplicitare la sentenza esemplifica: «È giustificato il porto di un coltello da chi si stia recando in un giardino per potare alberi o dal medico chirurgo che nel corso delle visite porti nella borsa un bisturi; per converso, lo stesso comportamento posto in essere dai medesimi soggetti in contesti non lavorativi non è giustificato e integra il reato».
La Cassazione esclude che, nel caso specifico analizzato, la decisione confligga con il principio della libertà religiosa e spiega: «In una società multietnica, la convivenza tra soggetti di etnia diversa richiede necessariamente l'identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza si debbono riconoscere. Se l'integrazione non impone l'abbandono della cultura di origine, in consonanza con la previsione dell'art. 2 Cost. che valorizza il pluralismo sociale, il limite invalicabile è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante».
Il passo che segue ha innescato discussioni, probabilmente perché il concetto di “valore” può essere percepito come relativo, più attinente alla sfera morale che a quella legale - qualcuno ha parlato di eccesso di motivazione - , ma leggendo la sentenza per intero sembra chiaro che il limite all’espressione della propria libertà religiosa o dei valori di appartenenza della propria comunità di origine, venga posto dai giudici della Suprema Corte su un piano prettamente legale: «È quindi essenziale l'obbligo per l'immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi, e di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all'ordinamento giuridico che la disciplina. La decisione di stabilirsi in una società in cui è noto, e si ha consapevolezza, che i valori di riferimento sono diversi da quella di provenienza ne impone il rispetto e non è tollerabile che l'attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante. La società multietnica è una necessità, ma non può portare alla formazione di arcipelaghi culturali configgenti, a seconda delle etnie che la compongono, ostandovi l'unicità del tessuto culturale e giuridico del nostro paese che individua la sicurezza pubblica come un bene da tutelare e, a tal fine, pone il divieto del porto di armi e di oggetti atti ad offendere”».
I termini di paragone stanno infatti tra comportamenti/valori leciti secondo le leggi vigenti nel Paese di provenienza e principi, leggi (“verificare la ‘liceità’), ordinamento giuridico del Paese di accoglienza. Nella lingua dell’uomo della strada potremmo tradurre così: posso affermare i miei valori, il mio credo, finché non mi mettono in condizioni di violare, consapevolmente, le leggi e i principi fondamentali del Paese che mi ospita (in questo caso si può probabilmente leggere con una valenza giuridica il riferimento ai valori, se è vero che i primi articoli della Costituzione sono il riflesso dei valori fondanti e dunque immodificabili della Repubblica italiana) o dell’ordinamento sovranazionale che lo include (tra i riferimenti normativi che sostengono la decisione sono citate non a caso: numerose sentenze della Cassazione, pronunce della Corte Costituzionale ma anche decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo).
«Nessun ostacolo», precisa la Corte,« viene in tal modo posto alla libertà di religione, al libero esercizio del culto e all'osservanza dei riti che non si rivelino contrari al buon costume. Proprio la libertà religiosa, garantita dall'articolo 19 invocato, incontra dei limiti, stabiliti dalla legislazione in vista della tutela di altre esigenze, tra cui quelle della pacifica convivenza e della sicurezza, compendiate nella formula dell' ordine pubblico».
E conclude: «va affermato il principio per cui nessun credo religioso può legittimare il porto in luogo pubblico di armi o di oggetti atti ad offendere». Il problema non è dunque portare il simbolo religioso, quanto il fatto che quel simbolo coincida con un’arma vietata dalla legge.