Nella catechesi di mercoledì 21 marzo papa Francesco non ha inteso fare alcuna replica né al recente libro uscito sull’argomento, né alla prefazione del medesimo da parte del cardinale Sarah. Non c’era bisogno di alcuna replica. Sono sufficienti le norme dell’attuale Messale Romano che il Papa, seguendo il normale programma di catechesi, ha citato e che affondano le loro radici nella più antica tradizione della Chiesa.
Fino alla riforma del Vaticano II il fedele riceveva la Comunione in bocca restando muto mentre il sacerdote, facendo un segno di croce con la particola sul fedele, pronunciava (in latino) questa formula: “Il corpo del Signore Nostro Gesù Cristo custodisca la tua anima per la vita eterna. Amen”. Una formula che era stata adottata nel corso del primo millennio per la Comunione data in bocca ai bambini che non erano ancora in grado di parlare e compiere gesti consapevoli (solo nel XIII secolo fu stabilito di non dare la Comunione prima dei dodici anni).
Verso la fine del primo millennio questa formula fu assunta anche per gli adulti ai quali fra il IX e X secolo fu progressivamente proibito di prendere in mano il pane consacrato (J.A. Jungmann, Missarum Sollemnia II, 286-287). Infatti, in quel particolare contesto di progressiva clericalizzazione del culto cristiano (anche a causa della lingua latina sempre meno conosciuta dal popolo) i fedeli laici venivano sempre più emarginati da una attiva partecipazione alla liturgia, che era pertanto percepita come una “faccenda” del prete.
Oscurata l’originaria dimensione conviviale dell’Eucaristia, unitamente alla concentrazione della scienza teologica sul mistero della reale presenza, il pane consacrato finì per essere considerato più come oggetto di adorazione che non come cibo condiviso e che solo i ministri ordinati potevano toccare (cfr. J.A. Jungmann, o.c. II, 291-294). Questa nuova sensibilità spirituale e cultuale condusse a non ritenere più idoneo per il sacramento il pane comune come, invece, è rimasto fino ad oggi nella Chiesa d’Oriente, ma si adottò il pane azzimo confezionato in piccole e sottili ostie o particole.
Fino ad allora il rito della Comunione era stato più o meno quello descritto da Cirillo di Gerusalemme (+ 386); “Quando ti avvicini... fai della tua mano sinistra un trono per la tua mano destra poiché questa deve ricevere il Re e nel cavo della mano ricevi il corpo di Cristo dicendo: amen” (Catech. Mistag. 5,21). Modalità che non è lecito ritenere indegna o addirittura sacrilega. Inoltre il progressivo allontanamento dei fedeli dalla partecipazione alla mensa eucaristica condusse il Concilio Lateranense IV (1215) a porre come norma minima la Comunione almeno una volta all’anno, a Pasqua. La Comunione divenne pertanto un atto devozionale e privato, sovente collocato fuori della Messa e con tutti gli atteggiamenti della devozione privata, compreso lo stare in ginocchio. La prima attestazione di questa prassi si ha con sicurezza solo verso la fine del XIV sec. (cf. J.A. Jungmann, o.c. 283-284).
Dal 1967 le norme offrono ai fedeli la possibilità di ricevere la Comunione secondo la tradizione più antica, in piedi e nella mano, senza escludere la modalità invalsa nel tardo Medioevo (cf OGMR 160). Non però secondo il proprio arbitrio, ma “secondo le norme stabilite dalla Conferenza Episcopale, tenendo presenti le varie contingenze, soprattutto la disposizione dell’ambiente e il numero dei comunicandi” (EM 34). La Comunione eucaristica durante la Messa non è un atto di devozione privata, ma ecclesiale, come manifesta il gesto processionale (cf OGMR 86) L’atteggiamento per ricevere la Comunione non deve essere semplicemente una scelta individuale e tanto meno una decisione presa per gusti personali o, peggio, per ragioni ideologiche e polemiche. La vera devozione nella liturgia si manifesta nel “fare comunione” anche nei gesti e negli atteggiamenti (cf OGMR 42).