Il suicidio assistito non è reato e, di fatto, entra nell’ordinamento italiano non per volontà del legislatore ma per una sentenza della Corte Costituzionale che aveva dato al Parlamento un anno di tempo per intervenire e mercoledì sera, dopo una lunga camera di consiglio, si è pronunciata con un’apertura sia pure accompagnata da diversi paletti. «La Corte – si legge in un comunicato diffuso in serata – ha ritenuto non punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli».
Il riferimento è al caso del radicale Marco Cappato, dell'associazione Luca Coscioni, che rischiava fino a dodici anni di carcere per aver accompagnato Fabiano Antoniani, il quarantenne milanese tetraplegico, in Svizzera a morire come chiedeva da anni dopo essersi ritrovato cieco e tetraplegico in seguito a un incidente. La Corte, si legge ancora nel dispositivo, «ha subordinato la non punibilità al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua (articoli 1 e 2 della legge 219/2017) e alla verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del Servizio Sanitario Nazionale, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente».
«Si tratta di una scelta molto grave e anche deludente dal punto di vista giuridico, etico e sociale», è il commento, a caldo, del professore Adriano Pessina, docente di Filosofia morale e direttore del Centro di bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Dal punto di vista giuridico, osserva Pessina, «la sentenza è in contraddizione perché se si ritiene il suicidio un male sia l’aiuto che l’istigazione, pur differenti, sono da considerare due condotte egualmente deplorevoli. Inoltre, viene meno il principio del diritto fondamentale alla vita tutelato dalla nostra Costituzione». Per Pessina la conseguenza dal punto di vista sociale è quella di creare «una pressione nei confronti dei malati che si sentono di peso e vengono giudicati un costo per la società. Dire che il suicidio può avere una sua logica», sottolinea, «vuol dire incoraggiare le situazioni depressive e quelle di difficoltà estrema e che se lo scegli liberamente in una condizione segnata da fragilità e malattia sei sostenuto dallo Stato che dovrebbe fare l’opposto, e sostenere invece la vita con l’allargamento delle cure palliative che oggi sono interdette a molti cittadini con il peso dell’assistenza che finisce per gravare tutto sulle famiglie».
Un altro aspetto poco chiaro («aspettiamo di leggere le motivazioni della sentenza») è il riferimento al sostegno vitale: «Non è chiaro», dice Pessina, «perché, di per sé, la legge sulle DAT (Disposizioni anticipate di trattamento, ndr) già consente al paziente di rifiutare il sostegno vitale e accettare di morire. C’è una differenza tra il causare la mia morte, con l’aiuto di qualcuno, e il suicidio assistito che non è legato al sostegno vitale ma è il caso di una persona che magari vuole togliersi la vita perché semplicemente teme l’insorgere della malattia».
«Uno schiaffo all'impegno della medicina per le cure palliative»
Per Pessina questa sentenza della Corte, che pure rimanda al legislatore che dovrà intervenire, «è uno schiaffo enorme a tutto l’impegno della medicina per le cure palliative e l’assistenza. Il rischio concreto è che entri nella nostra cultura il suicidio assistito perché la legge sembra avallare un fatto, il desiderio di morire, che può diventare un diritto».