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martedì 25 marzo 2025
 
televisione
 

«La crisi Rai? "Tele Meloni" l'ha solo peggiorata»

10/11/2023  L'analisi del critico di Famiglia Cristiana Massimo Scaglioni dopo i recenti flop di ascolti e dopo l'abbandono di Corrado Augias: «L'azienda soffre di una crisi di identità e di professionalità che arriva da lontano»

Massimo Scaglioni, docente di Storia dei media all'Università Cattolica di Milano
Massimo Scaglioni, docente di Storia dei media all'Università Cattolica di Milano

«La Rai è la mia vita, è la mia casa. Non la lascerò mai», aveva detto Corrado Augias, classe 1935, più di sessant’anni al servizio della Tv pubblica. Oggi Augias è pronto a traslocare da mamma Rai a La7, in aperto contrasto con gli attuali vertici (“questa Rai non mi piace”). Sulla scia di Fabio Fazio, Luciana Littizzetto, Bianca Berlinguer, Lucia Annunziata.
Al di là del torto o della ragione, la vera domanda è una sola: questa Rai così com’è funziona? A parlare è la crisi degli ascolti (vedi il flop dei programmi di Nunzia De Girolamo su Rai3 e Pino Insegno su Rai2), mentre si vocifera di una possibile staffetta al vertice post Sanremo tra Roberto Sergio (attuale amministratore delegato) e Giampaolo Rossi (attuale direttore generale). Nel mezzo Fiorello ironizza, ma, forse, sotto sotto dice la verità: “Rai 3 una volta era cultura, oggi è Rai Cepu”.
Il caso Augias è solo la punta dell’iceberg di un malessere evidente che fa discutere.
Ne parliamo con il critico televisivo di Famiglia Cristiana Massimo Scaglioni.

La crisi della Rai è ascrivibile alla sua lottizzazione? 
Mi sembra che si tenda troppo a politicizzarla, del tipo “è la tv meloniana che non funziona”. Per essere onesti l’uscita di Fazio è attribuibile, forse, alla gestione precedente. Il problema è legato alle novità fallimentari che si sono volute introdurre in questa prima parte della stagione, all’addio di professionisti di valore e alla mancanza di volti nuovi di spessore. Servono competenze in grado di fare televisione. Io leggerei la crisi in chiave tecnica, nel senso che le premesse c’erano già. Rai2 e Rai3 sono le reti più in difficoltà perché hanno perso un’identità, ma questo è legato a un cambiamento, introdotto qualche tempo fa, che ha portato alle “famose” direzioni di genere. Ciò che manca è un coordinamento forte che sia in grado di costruire quell’identità. Togliere i direttori di rete non è stata, a mio avviso, una buona idea. Serve una visione globale. Qualcuno si chiede cosa deve essere Rai2? C’è una progettualità? Questi sono i motivi di fondo per cui le due reti minori sono tracollate. I tempi di commento sono molto rapidi, ma per ragionare complessivamente su un’offerta televisiva ci vuole un medio lungo periodo. Detto questo, Roberto Sergio, che ha una competenza tecnica di valore, si trova stretto da tutta una serie di pressioni che provengono dalla politica. Quando la Rai è nata, la politica era più capace di dare una visione, una progettualità, una dimensione culturale. Questa spinta progettuale si è via via persa e oggi la politica ragiona soltanto in chiave di spartizione, senza quella visione che va recuperata. Ieri ho letto sul Corriere della Sera un’intervista a Piersilvio Berlusconi, principale competitor della Rai, che diceva cosa deve fare il servizio pubblico. Questa è la sfida da rilanciare. Il vero banco di prova sarà l’inizio del 2024 con l’arrivo di Sanremo. Servono più fondi da investire nei programmi culturali, mission del servizio pubblico. Poi c’è tutta una serie di problemi legati al canone, che rischia di essere ridotto, alle risorse pubblicitarie…

Lei è un attento osservatore del mondo televisivo. Si può ancora parlare di duopolio Rai-Mediaset? 
Il caso Augias è un po’ una cartina di tornasole di una serie di cambiamenti che abbiamo visto ultimamente, aperti dal passaggio di Fazio su Nove, tra l’altro con un esordio con il botto che ne ha fatto il programma più visto di sempre del canale, quintuplicandone la media in prima serata. È come se si fossero aperte le colonne d’Ercole, nello specifico una sorta di mercato dei volti. Il passaggio di Fazio ha quasi dato l’impressione che si fosse superato il duopolio. Complessivamente, non c’è una perdita della televisione in generale, che sta tenendo molto bene nonostante la concorrenza nuova delle piattaforme, però c’è un riequilibrio, per cui i canali più premiati in questo momento sono quelli che aspiravano al generalismo, ma erano dietro quelle colonne d’Ercole di cui parlavo prima, in particolare Nove, che è cresciuto più degli altri, e questo è il risultato soprattutto dell’arrivo di Fazio e dell’altro campione, consolidato da anni, che è Crozza, insieme al lavoro fatto su altri prodotti come access prime time con Don’t forget the lyrics.  Il caso Augias, che di per sé non è così eclatante, messo insieme a tutto quello che abbiamo visto dà il segnale di questa trasformazione in atto. Certo è che la concorrenza migliora l’offerta e la qualità. Nove e TV 8, finestre rispettivamente di Discovery e Sky, sono quelle che hanno puntato sul target generalista. In Rai funzionano i programmi consolidati, penso all’access prime time con Amadeus e al ritorno di Fiorello, che sta facendo il 20% su Rai2 al mattino, illuminando la rete in un contesto dove tutte le cose nuove stanno funzionando un po’ male.

È il crollo della tv generalista?
Non penso che la crisi sia irreversibile. La Rai deve riuscire a organizzarsi con professionisti validi che lavorino sulle reti e sui prodotti di qualità. La tv come mezzo continua a essere centrale e la Rai ha diversi punti di forza, è un po’ un architrave del sistema perché  investe tanto in fiction, in cinema, più del 60% dei programmi di informazione sulle generaliste è un prodotto Rai. Non c’è confronto che tenga con le altre reti, Mediaset compresa. È un periodo di difficoltà, in cui hanno pesato i volti non trattenuti, su tutti Fazio, che ha un programma perfetto per il servizio pubblico. La Rai ha anche problemi strutturali forti e, forse, in primis fra questi c’è l’invadenza della politica che pretende dalla Rai cose che rischiano di metterla in difficoltà più di quello che è. Serve più autonomia, ma è sempre stato così, perché la politica ha dettato le regole nominando i direttori, prima era democristiana poi è stata lottizzata. È sbagliato attribuire a una contingenza un problema più strutturale.

I cattolici e la cultura cattolica hanno voce in capitolo in questa Rai?
Poco, sempre meno. Rispetto alla capacità della cultura cattolica di esprimere professionisti, ceto intellettuale e una visione laddove sembra che si vada avanti day by day, si è affievolita. Credo che il mondo cattolico, il cui impegno è abbastanza trasversale, possa esprimere risorse importanti da valorizzare ma non collocabili da una parte o dall’altra. Così come credo che sia ormai finita l’unità politica dei cattolici su un partito e che siano valorizzabili in tutti gli schieramenti. Il servizio pubblico in Italia è nato con la cultura cattolica, che in passato ha risposto in maniera egregia a cosa debba fare il servizio pubblico. Rilanciamole la domanda.

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