Le parole di papa Francesco in Slovacchia e a un recente convegno dei Passionisti, ma anche alcuni testi dei cantautori De André e Dalla, ci ricordano il senso autentico del sacrificio di Cristo
Due circostanze ci consentono di tornare a meditare sul senso della croce: l’omelia di papa Francesco alla divina liturgia celebrata il 14 settembre scorso a Prešov e il messaggio inviato dallo stesso ai Passionisti per il loro Convegno internazionale sulla sapienza della croce in un mondo plurale, celebrato nei giorni scorsi presso la Pontificia Università Lateranense. Piuttosto che rivolgere la nostra attenzione al crocifisso, oggetto e segno, siamo chiamati a contemplare e meditare sul Crocifisso, sulla sua passione e sulla sua morte cruenta, con lo sguardo del ladrone, che, come canta De André, vi scorge un atto di amore incondizionato: «Io nel vedere quest’uomo che muore, madre io provo dolore, nella pietà che non cede al rancore, madre ho imparato l’amore» (Il testamento di Tito, nell’album La buona novella). «Non si contano i crocifissi: al collo, in casa, in macchina, in tasca. Ma non serve se non ci fermiamo a guardare il Crocifisso e non gli apriamo il cuore, se non ci lasciamo stupire dalle sue piaghe aperte per noi, se il cuore non si gonfia di commozione e non piangiamo davanti al Dio ferito d’amore per noi. Se non facciamo così, la croce rimane un libro non letto, di cui si conoscono bene il titolo e l’autore, ma che non incide nella vita. Non riduciamo la croce a un oggetto di devozione, tanto meno a un simbolo politico, a un segno di rilevanza religiosa e sociale» (così il Papa in Slovacchia). E ai Passionisti parla dell’amore kenotico e compassionevole di Dio, che tocca, nella croce del Figlio, i quattro punti cardinali e raggiunge i confini della nostra condizione umana. In questo orizzonte la croce viene a conferire senso alle nostre sofferenze, vissute nel dolore infinito di Dio, in quanto la logica della nostra fede vive un principio kenotico (ossia di abbassamento e di annientamento) e un fondamento agapico. Senza l’amore, infatti, il dolore e la morte di Gesù, come i nostri dolori e le nostre morti, non avrebbero alcun senso e sarebbe assurdo nascere e morire, come scriveva un pensatore ateo ed estremamente coerente nel suo non credere come Jean Paul Sartre.
Un altro cantautore, Lucio Dalla, in un suo testo poco frequentato che si intitola INRI, con chiaro riferimento al cartello posto sulla croce, esprime la sua ricerca («di cercarti io non smetterò») e conclude invocando il Crocifisso, perché parli a Dio per noi: «Aiutami, fratello mio, mio, parlaci tu con Dio, con Dio, Dio, sono suo figlio anch’io» (nell’album Il contrario di me). Dove non arriva la predicazione e quando rischiamo di ritenere scontato il messaggio cristiano, può giungere il canto e la voce da chi forse neppure ce lo aspettiamo. La potenza della croce sta proprio in questo suo interpellare ogni angolo del mondo e nella capacità di raggiungere ogni dolore e ogni morte.