L’Italia è il Paese dell’offerta culturale più ampia, anche se gli italiani non brillano per l’interesse nei confronti della cultura in generale e della lettura in particolare: le statistiche ci relegano agli ultimi posti in Europa tra i consumatori di libri.
Eppure, non ci mancano gli stimoli. Oltre alla grande quantità di titoli riversati dagli editori sui banchi delle librerie, uno sguardo su Internet ci ha fatto censire 66 festival letterari. Da Tropea in Calabria a Trieste, da Gavoi in Sardegna a Milano, è un pullulare di eventi che tendono a spettacolarizzare la cultura. Nel periodo da maggio a dicembre 2016, su Internet è possibile trovare informazioni su quasi duecento concorsi letterari. Mentre sono stati censiti circa 120 corsi di scrittura creativa. Alcuni anni fa, Paolo Di Stefano, sul Corriere della sera, calcolava a spanne in 30-50 mila gli iscritti a questi corsi che solleticano il genio italico, con offerte on line o residenziali, legate a scrittori affermati o a case editrici. E con costi, in alcuni casi, di oltre settemila euro l’anno per chi vi partecipa.
Saper leggere e scrivere determina il grado di cultura personale, la capacità di inserimento in un contesto sociale o lavorativo e tutta la comunità soffre quando un individuo è affetto da analfabetismo. Fenomeno che si ripropone oggi, come “analfabetismo di ritorno”, tra le nuove generazioni, che faticano a concentrarsi su un testo, a leggerlo e soprattutto a capirlo, perché “deformati” dall’uso dei nuovi media.
Leggere aiuta a ragionare. Per sua natura, la lettura abitua all’analisi, perché si svolge nel tempo e nello spazio, in modo consequenziale, parola dopo parola, riga dopo riga, pagina dopo pagina. Al contrario della visione sintetica del linguaggio audiovisivo che coinvolge emotivamente ma poco razionalmente. Nella lettura lo strumento si adatta alla persona e ai suoi ritmi, anziché la persona allo strumento, come succede in tanti giochi elettronici che diventano compulsivi piuttosto che liberanti.
«I libri ti cambiano la vita», sostiene Romano Montroni, libraio e insegnante. «Ci sono libri che, se incontrati al momento giusto, sono in grado di guidarci e ispirarci», continua. «Si legge per distrarsi, per informarsi, per imparare... Ma io credo che quando apriamo un libro è soprattutto di emozioni che siamo in cerca, e mentre “navighiamo” tra le pagine di un romanzo o di un saggio, acquisiamo gli strumenti per capire meglio noi stessi, gli altri e il mondo che ci circonda. Leggere è una forma di educazione sentimentale, civile e intellettuale» (intervista di Silvana Mazzocchi, su repubblica.it).
Ma anche scrivere, per chi ne ha le qualità, non è da meno. Perché scrivere significa grande capacità di osservazione, fantasia, creatività, attenzione al mondo e alle persone che frequentiamo, ai loro sentimenti e reazioni. Al di là delle mode e dei gusti del tempo che possono influenzare lo stile di scrittura, al di là della formazione scolastica e culturale che determinano il nostro modo di esprimerci, quello che conta è vivere e dare emozioni a chi legge, far vibrare le corde del cuore e accendere le lampadine della ragione.
Scrivere, oltre che una valenza letteraria, ha una valenza terapeutica. Perché obbliga a pensare dei contenuti, a fare ordine mentale dentro di sé, a costituire una scala di valori, a fare delle scelte sia pure attraverso i protagonisti di una narrazione. Scrivere significa ricostruire una storia, dando identità culturale e dignità alle persone, qualunque sia la loro vicenda.
E la verifica tra i grandi della letteratura lo conferma. «Dopo la morte di Paula, lo scrivere era l’unica cosa che mi permetteva di non impazzire. Il dolore fu un lungo viaggio nelle viscere della terra, fu come camminare da soli in un tunnel buio. Scrivere era il mio modo per uscire dal tunnel», confessa Isabel Allende sul suo sito, a proposito del libro Paula. «Fu soprattutto nel Novecento che la scrittura divenne un mezzo di cura “scientifica” della pratica psicanalitica e, prendendo le mosse da questa, un “medicinale” infallibile per i numerosi scrittori del XX secolo… Autori come Kafka, Pascoli, Ungaretti, Montale partirono dal proprio “male di vivere” per arrivare alle loro composizioni. La scrittura diventò uno strumento di rielaborazione, di dialogo interno, di comunicazione tra sé e sé. Svevo riuscì persino a utilizzare una scrittura che parlasse di se stessa come scrittura-terapia. Joyce battezzò il tema del monologo interiore: fu l’apoteosi della prima persona. Bufalino rafforzò il potere salvifico della scrittura. In generale, la scrittura costituisce un ottimo strumento di terapia» (Francesco Averna, www.mezzopieno.it).
E allora, lasciamoci andare. Una volta tanto, anziché i giornaletti di gossip, mettiamo nella nostra valigia per le vacanze un buon libro, a meno che siamo già dotati di carta, penna e calamaio… pardon, di computer, per fissare le nostre storie.