Una volta, la chiamavano melanconia.
Il manuale diagnostico
dell’American psychiatric
association distingue tra
un “disturbo depressivo maggiore” e uno
“minore”. Quello maggiore include i malesseri
che vengono anche chiamati depressione
clinica, depressione endogena,
disturbo unipolare e depressione ricorrente.
Tutti sono anomalie dell’umore che, in
varia misura, fanno perdere la gioia di vivere,
tolgono il desiderio di svolgere attività
solitamente considerate piacevoli, abbassano
l’autostima. Le persone più sensibili,
intelligenti e creative sono particolarmente
esposte a questa patologia. Ne soffrirono il
pittore Vincent van Gogh, gli scrittori Alessandro
Manzoni, Henry James e Cesare
Pavese, il presidente americano Abraham
Lincoln, il drammaturgo Tennessee Williams.
Nell’esercito dei depressi contemporanei
spiccano personaggi di successo:
il cantautore Leonard Cohen, il calciatore
Gigi Buffon, la showgirl Belèn Rodriguez,
l’attrice Charlise Theron, il regista Woody
Allen, il cantante Elton John... Fama e ricchezza, dunque, non sono buoni antidoti
per questo male. Anzi, forse lo favoriscono.
Al di là dei casi personali che fanno notizia,
la depressione ha un peso sociale enorme
e crescente: l’Organizzazione mondiale
della sanità (Oms) prevede che, nel 2030,
diventerà la seconda malattia più diffusa
nel mondo e che nel 2020, nei Paesi occidentali,
sarà la principale causa di disabilità
dopo le malattie cardiovascolari.
Per capire le dimensioni del problema,
vediamo qualche dato epidemiologico.
Nell’Unione europea, con Svizzera, Islanda
e Norvegia, vivono 514 milioni di persone:
30,3 milioni soffrono di depressione maggiore.
In questa popolazione, il rischio di
suicidio è 30 volte maggiore rispetto al normale.
Lo stato depressivo, inoltre, è correlato
a un più probabile sviluppo di altre
malattie: cancro, diabete, patologie cardiache.
La malattia di Alzheimer e la malattia
di Parkinson, spesso, si annunciano con
episodi depressivi, che si ripeteranno nel
corso dello sviluppo della patologia specifica. In Italia, il costo medio per paziente depresso
è di 4.062 euro l’anno a carico del
Servizio sanitario nazionale per ricoveri
ospedalieri, visite specialistiche e farmaci.
In Europa, la depressione causa annualmente
36 giornate di congedo dal lavoro
per paziente. Lo dice la ricerca Idea su un
campione di 7.000 adulti tra i 16 e i 64 anni.
Il costo indiretto dovuto all’assenza dal
lavoro raggiunge i 4 miliardi di euro l’anno
in Italia e i 54 in Europa. Secondo il rapporto
OsMed sull’uso dei farmaci, da noi la
depressione colpisce, sia pure con diversa
intensità, il 12,5 per cento delle persone assistibili,
ma solo un terzo di questa popolazione
si cura con farmaci antidepressivi.
Tra i costi indiretti, difficili da conteggiare,
ci sono anche quelli dovuti ai familiari convolti
nell’assistenza di parenti depressi.
Non sempre questa malattia è facilmente
riconoscibile, e quindi è sottodiagnosticata.
Gli stessi pazienti, spesso, non ne ravvisano
i sintomi in disturbi cognitivi di per
sé evidenti, come l’incertezza nel prendere
decisioni, la difficoltà di concentrazione,
l’indebolirsi della memoria e della capacità
di lavoro, la comparsa di stati ansiosi. All’origine
possono esserci fattori genetici,
biologici, psicologici, ambientali, sociali o
un mix di tutti questi. Il sesso più colpito è il
femminile: la probabilità di soffrire per un serio
episodio depressivo entro i 70 anni è del 27
per cento negli uomini e del 45 per cento nelle
donne. Conta anche l’età: l’inizio dei sintomi si
colloca tra i 30 e i 40 anni; negli anziani, in forma
moderata, diventa molto comune.
Non esistono test per la diagnosi, così come
non c’è una cura valida in assoluto: farmaci e
psicoterapie di vario tipo sono approcci diversi,
ma talvolta complementari. La stimolazione
transcranica magnetica o elettrica ha dato
esiti controversi. I farmaci antidepressivi sono
numerosi e talvolta abusati (si pensi alla diffusione
della fluoxetina cloridato, nota in Italia
con il nome commerciale di Prozac). A livello
biochimico, il meccanismo depressivo si manifesta
con un equilibrio alterato dei neurotrasmettitori,
le molecole scambiano messaggi
tra le cellule del cervello. La riduzione di
serotonina, noradrenalina e dopamina determinata
dall’alcaloide naturale reserpina, con il
conseguente aumento di cortisolo nel sangue,
induce i fenomeni ed è su questo meccanismo
che agiscono alcuni farmaci.
Sono di aiuto amminoacidi come glutammina,
arginina, ornitina e carnitina, magnesio,
vitamine del gruppo B, antiossidanti come
la vitamina C e D, che negli adulti sembra funzionare
anche a livello preventivo. Non ci sono
prove di efficacia, invece, per fitoterapie a base
di Ginkgo biloba o di Hypericum perforatum (la
popolare erba di san Giovanni).
Una ricerca di frontiera promettente è la fototerapia.
Gli aspetti di base di questo approccio
sono stati presentati da Fabio Benfenati, coordinatore
del Center for synaptic neuroscience
and technoloy dell’Istituto italiano di tecnologia
di Genova. «Stiamo lavorando su cellule
che producono particolari proteine chiamate
opsine, che furono identificate negli anni ’70:
si tratta», ha spiegato, «di molecole sensibili alla
luce. L’idea è di utilizzarle per dare ordini ai
neuroni. Attraverso virus innocui programmati
per veicolare materiale genetico, è possibile
inserire nelle cellule neuronali il gene che codifica l’opsina, facendo sì che il neurone modificato divenga sensibile allo stimolo luminoso e
risponda a comandi impartiti dall’esterno con
la precisione di qualche millesimo di secondo». Agendo sul cervello con la luce, si potrebbe
stimolare o inibire in modo specifico solo i
neuroni che sono stati indotti a generare le opsine
fotosensibili, mentre la stimolazione elettrica,
usata nell’uomo ad esempio nella terapia
del morbo di Parkinson, provoca eccitazione
nelle cellule nella zona in cui viene inserito l’elettrodo,
senza distinzione della tipologia.
Ma senza ricorrere a tecnologie così avanzate
e ancora lontane dalla clinica, si può agire
sugli stati depressivi con una esposizione a luce
di adeguata intensità e colore. La cosa non
stupisce, se si pensa a quanto sono diuse le
depressioni stagionali. Si parla in questo caso
di Sad, Seasonal aective disorder di cui, solo
nel Regno Unito, soffrono due milioni di persone.
In tali soggetti, in inverno si riscontrano
spesso livelli inferiori di serotonina, fenomeno
che potrebbe essere legato all’aumento di appetito:
uno studio del 2014, ha rivelato che il 27
per cento delle persone colpite da Sad durante
l’inverno mangia troppo. C’è anche chi ne
soffre in estate, per la prolungata presenza del
sole. Nei Paesi a latitudini medio-alte, i colpiti
da Sad estiva sono appena un decimo di quelli
con Sad invernale, ma nei Paesi equatoriali,
dove il sole cala a perpendicolo sull’orizzonte
e si passa rapidamente al buio, la Sad estiva è
prevalente: sembra che questo disturbo stagionale
possa scatenare l’autolesionismo.
Uno studio del 2014, pubblicato nella rivista
Jama psychiatry, ha esaminato le statistiche
della mortalità in funzione della stagione su
un periodo di quarant’anni in Austria. È emerso
che un maggior numero di persone tentava
il suicidio intorno al solstizio estivo o nei 10
giorni precedenti. Dopo due settimane di sole,
il tasso di suicidi si riduceva, come se ci fosse
un adattamento. Certo, molti fattori possono
portare alla depressione, ma i nessi tra esposizione
alla luce e salute mentale sono abbastanza
evidenti: basta pensare ai ritmi circadiani,
scanditi da particolari cellule dell’occhio (cellule
gangliari, non deputate alla visione ma a
registrare la luce azzurra) e dai segnali nervosi
che vengono inviati al nucleo soprachiasmatico
(un piccolo “grumo” di neuroni nell’amigdala,
al centro del cervello) e di qui all’episi.
In attesa di sviluppi della fototerapia, si consolida
l’esperienza su altre linee di ricerca sperimentale.
Da qualche anno è disponibile l’agomelatina,
una molecola con struttura simile
alla melatonina che, nei depressi, agisce sui
recettori della melatonina e della serotonina.
Un anestetico, la ketamina, viene sperimentato
nella depressione maggiore, ma richiede
prudenza perché si tratta di un allucinogeno
e gli effetti terapeutici hanno durata breve,
di poche settimane. In generale, l’approccio
farmacologico, se adottato da uno psichiatra
esperto, è rapido ed efficace nella sua azione
ma, evidentemente, non può risolvere quei casi
in cui la depressione non è endogena ma ha
importanti cause ambientali o sociali, come la
perdita di una persona cara, del lavoro e della
sicurezza economica. Proprio perché siamo in
pari misura mente e cervello, anima e corpo,
una società equa e solidale rimane la miglior
prevenzione contro gli stati depressivi.