Poteva una collana di libri
che si chiama “Vite esagerate”
prescindere da fratel
Ettore? La risposta è nel
libro di Emanuele Fant,
disponibile con Famiglia Cristiana, che fin
dal titolo entra nel cuore della questione:
L’invadente. Fratel Ettore, la
virtù degli estremi.
Emanuele Fant conosceva molto
bene fratel Ettore. «L’ho incontrato
quando ero una persona diversa, facevo parte di una band di ragazzini
punk, lontani dalla Chiesa. In cerca
di esperienze estreme, siamo rimasti
affascinati da lui, dal suo affidamento
alla Provvidenza, da quei
“corpi” di poveracci di cui si circondava.
Abbiamo cominciato a frequentare
come volontari la sua comunità. In
età adulta, poi, suor Teresa Martino,
che ha raccolto l’eredità di fratel Ettore,
mi ha chiesto di lavorare con loro e
di fondare un teatro dentro la comunità.
La mia fede è nata così».
Proprio alla fine della rappresentazione
di uno spettacolo dedicato al religioso
di cui era regista, Fant ha ricevuto
la proposta di scrivere un libro su
di lui: «Ero imbarazzato, perché avevo
già pubblicato un volume sulla sua figura, ma mi è stato risposto semplicemente:
“Scrivine un altro, più bello”».
Se il primo libro raccontava l’incontro
di un adolescente con fratel Ettore,
“L’invadente” mette a fuoco «il tema
della “vita esagerata”, della persona
estrema che non chiede “per favore”,
ma come un fulmine entra nella tua
vita». “Invadente”, “estremo”, “esagerato”,
è questa la cifra di fratel Ettore, che
nel libro di Fant si traduce anche nella
tematizzazione di un contrasto che può
sorgere all’interno delle comunità parrocchiali:
«Racconto l’opposizione fra
la parrocchia che vive la fede nella
quotidianità e lo stile estremo del religioso,
proprio dei santi. Per me, sono
due strade che portano entrambe alla
santità; e questa dialettica è vitale per
entrambe le prospettive».
Il libro muove da uno spunto di
cronaca: l’uccisione di una parrocchiana
da parte di uno dei poveri di fratel
Ettore. «Un episodio reale, avvenuto
negli anni Ottanta, di cui sono venuto
direttamente a contatto perché
su mandato di suor Teresa ho avuto
l’incarico di svuotare i cassetti del religioso
per costruire un archivio. Ho
ritrovato articoli, con a margine le sue
annotazioni. Però non volevo scrivere
un romanzo di cronaca: attorno a quel
nucleo, ho lavorato con l’immaginazione,
consegnando al lettore – grazie
alla conoscenza diretta, alle letture, ai
video visti – un personaggio credibile
e luoghi e situazioni verosimili».
Dunque fratel Ettore è un esempio
da seguire, come ci si chiede a
un certo punto del romanzo? «È una
questione aperta, io stesso non direi
serenamente di sì. Molti che l’hanno
seguito alla lunga non ce l’hanno fatta,
però una cosa è certa: il suo modo totalizzante
di vivere la fede e di affidarsi
alla Provvidenza sono un modello e,
varcando le porte della sua comunità,
si percepisce che è una realtà vera».