Mentre nello studio di Giorgio Bassani prendevano forma le Storie ferraresi, Paola Bassani, bambina, giocava nella stanza accanto: «Per me e per mio fratello la consegna era giocare in punta di piedi». Nella casa di Montesacro a Roma “Silenzio, genio al lavoro” non era una battuta di spirito, ma un dato di fatto e Paola, a giudicare dal divertimento con cui racconta, ridendo anche con gli occhi appena truccati d’azzurro, non sembra aver sofferto la restrizione: «Papà diceva di noi: “Ho degli angeli...”, eravamo bambini rispettosi, ma, per fortuna nostra e di nostro padre, la vera ispirazione gli arrivava all’alba, quando noi dormivamo. Al pomeriggio trascriveva parti già scritte. Le sue prime stesure, su quaderni di computisteria, sono piene di croci: solo dei Finzi-Contini abbiamo oltre 2 mila pagine. A volte – avevamo sette, otto anni – ci chiamava e ci leggeva e poi ci chiedeva: “Vi piace di più così o così?” Noi sceglievamo e incredibilmente ci prendeva sul serio. Eravamo i suoi giudici ed era una cosa allegra. Ma arrivavamo quando ormai la fase tormentata della creazione, quella che lo faceva soffrire nella convinzione di aver scritto cose orribili, di cui siamo stati testimoni soprattutto con l’Airone, era finita».
A casa Bassani la storia della letteratura sedeva a tavola, in carne e ossa: i Bellonci, Pasolini, Moravia, Elsa Morante, Sandro Penna, Mario Soldati...: «Venivano a cena da noi e noi, piccoli trattati da grandi, mangiavamo con loro senza interrompere per attirare l’attenzione, anche perché gli amici dei nostri genitori erano tutti artisti, un po’ matti e per noi era molto divertente ascoltare quello che si dicevano tra di loro. Erano monumenti, ma non monumentali. Solo dopo, quando ho distanziato il passato, mi sono resa conto di che meraviglioso privilegio sia stata quella convivialità. Del resto, anche mio padre per raccontare Ferrara ha avuto bisogno di andarsene, di venire a vivere a Roma».
Ferrara centro del mondo. Una città luogo dell’anima. Raccontata con le viscere, città ombelico di un romanzo infinito, la quale, come accade, ha lungamente stentato a riconoscersi nello specchio della letteratura: «Per noi Ferrara era un luogo privatissimo: la casa della nonna, la città di papà che vivevamo tutta tamponata da lui, in un clima festoso che avvolgeva tutto, dalla visita alle tombe alle gite in bicicletta. Anche mamma era ferrarese, ma si era formata a Pola. L’impatto vero con Ferrara l’ho avuto dopo la morte di mio padre: lì ho capito che l’ambiente ebraico ferrarese si era sentito tradito dalla sua letteratura. Bassani ha raccontato il dramma degli ebrei ferraresi senza idealizzarli, descrivendoli come italiani borghesi completamente integrati e non tutti si erano riconosciuti in questo sguardo che non li vedeva distinguersi dalla civiltà italiana, ma espressione di essa».
Anche Ferrara ha avuto bisogno di tempo: «Alla fine si è riconciliata con mio padre, comprendendo di essere stata per lui, in proporzione, quello che Firenze era stata per Dante: il suo microcosmo. Anche mio padre raccontava Ferrara, ma parlava del mondo. E anche lui l’aveva fatto da “esiliato” nel senso più superficiale, in quanto trasferito a Roma e in senso storico, in quanto ebreo. Alle leggi razziali reagì diventando antifascista, sostenitore della libertà e della democrazia senza distinzione tra ebrei e non ebrei. Ma la sua identità profonda è stata ferita».
Paola Bassani rivendica il diritto di restare figlia lasciando ai critici il loro lavoro, la libertà di leggere Giorgio per il puro piacere di risentire la sua voce e di raccontarlo tifando per lui. Lo descrive come «un padre biblico», espressione esotica per un laico, seguace di Benedetto Croce: «Non era osservante, ma guai dargli dell’ateo, replicava: “No, coltivo la religione dello spirito”, teneva alla sua identità mista: italiano, ferrarese, ebreo, aveva una nonna cattolica e ci teneva a dirlo. Eppure era un padre da Antico Testamento: un Mosè protettivo, indicava la strada. Era capace di dirti: “Se vuoi fare così, fallo, ma non ti benedico”, una cosa enorme. Volevo sposarmi prima di concludere gli studi: quella frase mi ha aiutato a capire che aveva ragione, ma ho anche avuto una specie di paura di ciò che mi sarebbe caduto addosso: ho avuto timore di Mosè. Da madre (Paola ha due figli, Camille e Laurent, nati a Bruxelles quando la famiglia viveva lì, ndr) non credo che avrei avuto la forza di dire una cosa così: anche se non ne condividessi le scelte, io benedirei lo stesso i miei figli».
Anche la casa parigina che Paola Bassani, docente universitaria di Storia dell’arte, divide dal 1970 con il marito Lucien è piena di suo padre: «Per tutto l’inverno abbiamo ospitato giovani educati che si sono succeduti per catalogare e digitalizzare l’epistolario. Dico a mio marito: “Io racconto mio padre per scoprirlo ogni volta un po’ perché non ho ancora afferrato tutto di lui, ma lui dal cielo dovrà ringraziare anche te, per la pazienza”».