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domenica 26 marzo 2023
 
coronavirus
 

"La guerra al Covid-19 in Europa è ancora lunga, non finirà se non cambiamo l'ambiente che ci circonda"

24/09/2020  L'epidemiologo di fama mondiale Alberto Garcia fa il punto sulla lotta al virus. "Dobbiamo rassegnarci al fatto che il Covid-19 genera molti più interrogativi che certezze. E a questi interrogativi dobbiamo ancora dare risposte soddisfacenti".

Alberto Garcia
Alberto Garcia

Ecco uno scienziato che i vaccini li conosce bene. Alberto Garcia, spagnolo ma con cittadinanza anche francese, è uno dei più noti epidemiologi di Francia. Dottore in Medicina, per anni ricercatore clinico responsabile dello sviluppo di vaccini pediatrici e per adulti, è stato nella parte più recente della sua carriera, per la Sanofi Pasteur (ovvero, la divisione vaccini della grande azienda farmaceutica francese) direttore della preparazione all’influenza pre-pandemica e all’influenza pandemica, responsabile medico e scientifico per la comunicazione di crisi a livello mondiale e, sempre a livello mondiale, portavoce medico e scientifico. È al suo volto che i telespettatori d’Oltralpe si sono abituati nelle settimane più dure della lotta al Covid 19. Con tutta questa “francesità”, la prima domanda è inevitabile.

La Francia ipotizza nuovi lockdown. E poco tempo fa, il primo ministro Jean Castex, parlando dell’aumento dei contagi, ha detto: «Ci troviamo di fronte a qualcosa che gli scienziati non avevano previsto». Ma in quale misura è possibile prevedere l’andamento di questo virus, o di un virus in generale?

«È sempre difficile, spesso impossibile, prevedere l’emergenza e l’andamento di una nuova malattia infettiva, o il riemergere di una malattia scomparsa o considerata tale, o infine l’esplosione di una malattia fino a un certo momento confinata in una particolare area geografica. Fin d’ora sappiamo che in futuro avremo altre pandemie di origine infettiva, ma non sappiamo quando o come si evolveranno. Sappiamo però che, affinché una nuova malattia infettiva emerga o riemerga negli esseri umani, e sia responsabile di epidemie o di una pandemia, devono essere soddisfatte tre condizioni: una popolazione suscettibile, un virus (o altro agente infettivo) patogeno e contagioso e un ambiente favorevole».

L’attuale ondata di contagi sembra avere un andamento “strano”. L’Italia, che fu il primo Paese europeo a essere colpito in modo pesante, sembra oggi quasi risparmiata dai contagi. Molto più colpiti, adesso, sono Paesi come Francia, Spagna o Germania. Come si spiega tutto questo?

«L’attuale ondata di contagi non è “strana”. I virus SARS-CoV-2 o altri non hanno confini. E poi, già in passato è stata osservata una diffusione eterogenea del virus, non solo da un Paese all’altro ma addirittura da una regione all’altra all’interno dello stesso Paese. Possiamo fare molte ipotesi per capire perché Paesi così vicini per la geografia, la capacità di farsi carico della malattia e il modo di vivere, come Italia, Germania, Spagna e Francia, sono più o meno colpite dal virus in un dato momento. Nessuna ipotesi, però, sarà plausibile se non è collegata ad almeno una delle tre condizioni menzionate prima per l’emergere e lo sviluppo di una nuova malattia infettiva: persone suscettibili, un virus patogeno e un ambiente favorevole al contagio. Pertanto, le differenze tra i Paesi vicini possono essere spiegate solo sulla base di cause multifattoriali che si intrecciano tra loro.

Molto dipende, per esempio, dalle caratteristiche della popolazione interessata: piramide dell’età, tipologia di alloggio per anziani o popolazione a rischio (isolata o all’interno della famiglia o in una struttura collettiva), gestione sociale, paramedica e medica dei fattori di rischio e delle patologie geriatriche ... È stata anche menzionata, nelle ricerche, l’esistenza di “super-contaminanti” o “super-propagatori” in alcune popolazioni. Secondo questa ipotesi, solo il 10% della popolazione infetta è responsabile dell’80% delle trasmissioni del virus. Questa disparità nelle popolazioni potrebbe anche esercitare un’influenza sulla soglia necessaria per ottenere l’immunità di gruppo, stimata dall’Oms tra il 60% e il 70% della popolazione».

Ma allora come si spiegano queste differenze di Paese in Paese?

«Una vera spiegazione può essere solo multifattoriale. Conta, per fare un altro esempio, la contagiosità del virus.  L’Italia nelle prime settimane è stata molto colpita dal virus di clade V, poi sono stati i virus di clade G e GR a prevalere. La Germania, invece, è stata subito colpita dal virus di clade G, poi da quelli dei cladi G e GR e in misura minore GH. La Spagna è stata all’inizio duramente colpita dal virus di clade S, poi in seguito il virus di clade G si è imposto in proporzione uguale al primo. Per la Francia Francia è stato il virus di clade O a diffondersi nelle prime settimane, per essere poi sostituito dai virus di clade G e soprattutto GH. Per non parlare del fattore ambientale. Le nazioni e le regioni d’Europa sono molto vicine e oggi formano un tutto, ma ognuna ha le sue particolarità, come aree con diversi gradi di sviluppo economico o reti di porti, aeroporti, strade e ferrovie più o meno estese. Inoltre, possono esistere differenze nei comportamenti e negli stili di vita, nella gestione della politica sanitaria, nella maggiore o minore accettazione delle misure di precauzione da parte delle popolazioni, negli stili di vita. Dobbiamo mantenere la calma. I dati epidemiologici possono essere molto fluttuanti e ciò che sembra vero oggi potrebbe non sembrarlo domani».

Il Covid-19 era stato previsto?

«Dopo la prima epidemia severa di coronavirus nota nell’uomo (il SARS, nel 2002-2003, a causa del virus SARS-Cov-1), i ricercatori di molti Paesi avevano percepito il pericolo rappresentato da questa famiglia di virus e avevano avvertito della possibile emergenza, in un futuro più o meno prossimo, di una epidemia di coronavirus dello stesso tipo. In un certo senso, dunque, era stato prevista la comparsa di un nuovo e pericoloso virus della famiglia dei coronaviridae, in questo caso il coronavirus SARS-Cov-2 responsabile della Covid-19. Ma certo non la data dell’evento nè il suo andamento. Lo stesso ragionamento può essere applicato a tutte le altre malattie, virali e non, con potenziale epidemico o pandemico. Non meno di 177 nuovi agenti infettivi emergenti (virus, ma anche batteri e parassiti) sono apparsi negli esseri umani tra il 1970 e il 2007, di cui il 70% di origine animale, in particolare dalla fauna selvatica».

Dunque dobbiamo pensare che siamo stati e saremo aggrediti da altri virus?

«Non tutti sono stati responsabili di epidemie o pandemie, anche se molti ne avevano il potenziale. Sappiamo quindi da tempo che alcune famiglie virali sono una seria minaccia per l’essere umano perché possono generare virus varianti altamente patogeni e contagiosi, in particolare i virus dell’influenza A (della famiglia degli orthomyxoviridae), di cui il serbatoio animale primario è l’uccello e uno dei serbatoi ospiti intermedi è spesso il maiale. Infine, l’umanità ha combattuto le malattie infettive sin dalla notte dei tempi. Sono noti molti episodi gravi di epidemie e pandemie, sia batteriche (colera, peste, tifo) sia virali (vaiolo, febbre gialla, HIV, influenza, poliomielite), descritti fin dall’antichità. Sono stati spesso devastanti. La storia quindi si ripete e, perfino, accelera».

Perché?

«Perché l’uomo è intimamente legato al suo ambiente naturale, ai suoi congeneri (demografia, desertificazione rurale, concentrazione urbana), alle piante, agli animali di tutte le specie, alla qualità dell’aria, dell’acqua e del cibo, nonché alle pratiche agricole, ai cambiamenti nell’uso del suolo, alla deforestazione, alla globalizzazione del commercio e dei movimenti umani, all’inquinamento e al cambiamento climatico. Formiamo un tutto unico, la Natura è così fatta. Le specie animali e vegetali sono spesso colpite da epidemie e pandemie (chiamate epizoozie e panzootie per la prima ed epifite per la seconda). Allevatori, agricoltori e viticoltori ne sanno qualcosa. La salute degli animali e quella umana sono interdipendenti. L’ambiente naturale è un fattore chiave nella comparsa, diffusione e andamento dei virus del futuro».

C’è un’attesa spasmodica, in tutto il mondo, per il vaccino anti-Covid. A che punto è il lavoro sul

vaccino?

«Il 3 settembre 2020, l’OMS ha pubblicato un elenco temporaneo di 176 vaccini candidati contro la Covid-19. In realtà ci sono più di 200 vaccini candidati per uso umano, secondo varie fonti di informazione. Tutti gli studi condotti o in corso sono inoltre disponibili sul sito web del registro degli studi clinici dell’Agenzia europea per i medicinali (https://www.clinicaltrialsregister.eu/ctr-search/search) o del NIH americano (https://clinicaltrials.gov). Se ci riferiamo all’elenco dell’OMS, 142 candidati vaccini sono ancora in una fase preclinica e 34 sono attualmente in fase di valutazione clinica: 12 nella fase I e 22 nella fase II o III. A parte uno russo, che è stato approvato dalle autorità di questo Paese ma senza aver completato il suo sviluppo clinico, nessun vaccino è oggi in fase di commercializzazione (fase IV)».

Si sente spesso parlare di queste “fasi”. Di che cosa si tratta, esattamente?

 «Sono i passi che un produttore di vaccini deve compiere. In primo luogo, la ricerca fondamentale sui diversi possibili vaccini candidati, spesso appannaggio di centri di ricerca e laboratori pubblici o privati. Segue poi la fase dello studio di fattibilità industriale, ovvero l’analisi degli investimenti e delle misure organizzative da prendere per produrre dosi cliniche su piccola o grande scala, e in seguito per produrre dosi commerciali del vaccino candidato, oltre che i contenitori necessari (fiale, siringhe, aghi). Il terzo passaggio è lo sviluppo farmaceutico del vaccino, durante la quale si precisano la sua formulazione nonché le specifiche necessarie per gli studi di stabilità e il rilascio di futuri lotti clinici e commerciali. Questa parte del lavoro si conclude con lo sviluppo preclinico: numerosi studi su animali (spesso topi), con l’iniezione di diversi dosaggi e dosi di vaccino candidato o di componenti di quest’ultimo (adiuvante, conservante)».

A questo punto arrivano gli studi clinici. In che cosa consistono?

«Il vaccino candidato selezionato per prima cosa viene sopposto, sotto la responsabilità di un medico ricercatore clinico (questa è stata parte del mio lavoro per molti anni), a test statistici e analisi dei dati. Durante questi test il vaccino candidato viene somministrato all’uomo e anche qui ci sono diverse fasi. La Fase I viene sempre eseguita su volontari adulti sani, anche se il vaccino è destinato ad altre popolazioni (bambini, anziani, ecc.). Tra le 10 e le 100 persone, a volte di più, partecipano a questi test clinici che cercano di valutare in primo luogo la tolleranza locale e generale del vaccino. La Fase II dà la priorità all’analisi dell’immunogenicità su larga scala: partecipano più di 100 volontari, e talvolta anche diverse migliaia. I campioni di sangue vengono prelevati il giorno della somministrazione del vaccino, prima e dopo ogni dose di vaccino e anche giorni o settimane dopo la vaccinazione. Viene così analizzata la cinetica degli anticorpi ritenuti protettivi, ovvero l’immunogenicità. Permette di definire il dosaggio ottimale del vaccino e il numero di dosi da somministrare come prima immunizzazione (una o due dosi, talvolta tre). Devono essere condotti studi a lungo termine per verificare la necessità di dosi di richiamo. Devono essere effettuati anche test sulle popolazioni target prioritarie. Viene anche analizzata la tolleranza al vaccino».

Si dice che la Fase III sia fondamentale …

 «Confermo. La fase III viene svolta su scala molto ampia: fino a diverse migliaia di volontari, e il suo scopo è analizzare la capacità del vaccino di prevenire la malattia. Infine, appena si ottiene l’autorizzazione all’immissione in commercio, il vaccino entra nella fase IV, durante il quale continua ad essere oggetto di studi di “vaccinovigilanza” a livello nazionale, sotto la responsabilità dei farmacisti e dei medici di farmacovigilanza sia del ministero della Salute del Paese interessato sia di quello del produttore. Questa fase è ora oggetto di discussioni approfondite da parte dei ministeri della Salute al fine di identificare, una volta che un vaccino contro il virus SARS-Cov-2 sarà disponibile, i possibili scenari di vaccinazione delle popolazioni. Nessuno Stato avrà subito dosi di vaccino sufficienti per immunizzare tutta o la gran parte della popolazione. La disponibilità del vaccino sarà infatti scaglionata, settimana dopo settimana. E bisognerà anticipare le capacità di stoccaggio in cella frigorifera, il numero di operatori sanitari necessario per le campagne di vaccinazione, l’inoltro delle dosi in condizioni tali da rispettare la catena del freddo fin nelle regioni le più remote, la logistica per la somministrazione delle dosi (aghi, siringhe monodose o fiale multidose, ecc.)».

Ci sono politici, come Vladimir Putin in Russia, che hanno già annunciato un vaccino anti-Covid. Altri, come Donald Trump, promettono di produrne uno entro la fine del 2020. Allo stato attuale delle cose, è possibile fare previsioni certe sulla scoperta del vaccino anti-Covid? Se non sbaglio, ci sono vaccini a cui si lavora da decenni e che ancora non sono stati trovati, oppure sono stati trovati ma non sono completamente efficaci…

«Lo sviluppo classico di un nuovo vaccino richiede teoricamente dieci anni, talvolta anche molto di più. Ad esempio, le ricerche sui vaccini contro l’HIV, la malaria o la dengue sono in corso da decenni e finora nessuno di essi è ancora disponibile, perché si tratta di vaccini molto complessi da sviluppare. Altri vaccini sono meno problematici. Personalmente ho lavorato molto sui vaccini pediatrici: vaccini antipertosse acellulari e loro diverse combinazioni con vaccini contro la difterite, il tetano, il HiB, la poliomielite e l’epatite B, oltre che sui vaccini contro l’influenza stagionale e pandemica, sia nel bambino che negli adulti. Tutti questi vaccini sono stati sviluppati con successo.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, non possiamo aspettarci una massiccia immunizzazione delle popolazioni contro la Covid-19 prima della metà del 2021. Per il vaccino anti-Covid 19 molte sfide devono essere superate».

Sarà in grado di indurre una risposta immunitaria sufficiente nelle popolazioni più vulnerabili, anziane o immuno-depresse? Sarà ben tollerato se utilizzato su larga scala, e soprattutto senza effetti collaterali?

«Avendo dedicato gran parte della mia vita allo sviluppo di vaccini umani, rimango fiducioso sulla capacità degli scienziati di superare le difficoltà».

 In tutto il mondo si è scatenata una corsa al vaccino che sembra una competizione tra le nazioni, invece che uno sforzo coordinato per trovare un rimedio alla pandemia. La politica, con le sue esigenze, sta nuocendo alla scienza? Saremmo arrivati prima al vaccino se i diversi Governi avessero collaborato alla ricerca, invece che mettersi in competizione?

«Da soli si cammina veloci, ma insieme si va più lontano. È una citazione che dovrebbe farci riflettere. Mentre la concorrenza tra i team scientifici può rivelarsi stimolante e vantaggiosa, l’aiuto reciproco e la condivisione delle conoscenze in tempo reale potrebbero consentire l’ottimizzazione degli sforzi di tutti per combattere efficacemente la malattia e rendere disponibili più rapidamente vaccini sicuri ed efficaci, al prezzo più basso possibile. L’ego sovradimensionato di certi scienziati o di certi politici e i loro annunci inopportuni non facilitano certo la gestione di una crisi sanitaria. Mi sembra, tuttavia, che nel complesso vi sia una certa trasparenza nello scambio di informazioni. In una grave emergenza pandemica, come la Covid-19, tutto è accelerato. La priorità assoluta viene data a rendere disponibile nel più breve tempo possibile la soluzione teoricamente più efficiente: la vaccinazione. E fino ad ora la maggioranza degli attori pubblici e privati ha collaborato sinceramente, perché si tratta di proteggere la salute di milioni di persone ma anche l’economia nel suo insieme. La ricerca si sta muovendo molto velocemente e il fatto che 176 candidati vaccini vengano elencati in così poco tempo è rassicurante. Dobbiamo ovviamente proteggere i meriti della ricerca biomedica pubblica o privata, così come i brevetti, ma credo che i Governi debbano garantire che i vaccini appartengano anche all’umanità e non esclusivamente agli interessi privati».

Dal punto di vista epidemiologico, il Covid19 ha colpito Paesi molto diversi tra loro. Nazioni più sviluppate, con sistemi sanitari evoluti e tecnologie d’avanguardia, hanno subito contagi e morti come e anche più di Paesi meno sviluppati o sottosviluppati. Come si spiega?

«Il fatto che questo virus fosse sconosciuto prima della fine del 2019 non spiega la gravità della malattia o la diffusione del virus a seconda del tipo di Paese. Il virus è emerso in Cina, poi è seguita l’Europa. Perché? Il Vecchio Continente non era pronto, soprattutto perché ha rinunciato alle capacità di produrre principi attivi, maschere, respiratori, guanti protettivi e gel idroalcolici, a beneficio dei Paesi asiatici. Alcuni importanti Paesi europei hanno percepito l’arrivo della Covid-19 come una brutta sorpresa imprevista, e forse non hanno misurato immediatamente la gravità della malattia. L’Europa è anche la regione del turismo per eccellenza. Nel 2018 ha accolto 1,4 miliardi di stranieri da tutto il mondo e probabilmente altrettanti nel 2019. Forse, questo spiega perché l’Italia, poi la Spagna e la Francia, i Paesi più turistici del mondo, siano stati colpiti subito dopo la Cina e prima ancora del Regno Unito, degli Stati Uniti e infine dell’intero pianeta. Il virus potrebbe aver semplicemente seguito le rotte aeree più trafficate».

E per i Paesi meno sviluppati?

«Bisogna stare attenti prima di dire che i Paesi meno sviluppati sono stati colpiti meno di quelli ricchi. In effetti, i dati statistici differiscono in modo molto sorprendente. I tassi ufficiali di letalità per casi di Covid-19 vanno dal 28,89% in Yemen e dal 12,69% in Italia (secondo tasso di mortalità più alto al mondo) al 9,16% in Francia, 5,54% in Spagna, 3,73% in Germania e fino allo 0,17% in Qatar o 0,05% a Singapore o anche allo 0% in Bhutan, Laos, Macao, Eritrea o alcune piccole isole caraibiche. Ma questi dati sono affidabili allo stesso modo e quindi confrontabili? Certamente no! La diagnosi differenziale tra le tante malattie infettive che colpiscono i Paesi di basso livello di sviluppo non è facile a causa della mancanza di accesso, per la maggior parte delle popolazioni povere, a sistemi di screening e di cura di qualità. Come distinguere una febbre dovuta a SARS-Cov-2 da quella di un’altra causa, quando la maggior parte dei casi di febbre in certi Paesi rimane non diagnosticata? In Francia, lo screening per il virus SARS-Cov-19 e l’accesso all’assistenza sanitaria sono ora gratuiti. Ho viaggiato molto per il mio lavoro e posso dire che nella maggior parte delle nazioni del mondo non è certo così. Dobbiamo rassegnarci a un fatto: la pandemia del Covid-19 genera molti più interrogativi che certezze. E a questi interrogativi dobbiamo ancora dare risposte soddisfacenti».

 

 
 
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