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martedì 22 aprile 2025
 
medio oriente
 

Pizzaballa: «Temo un allargamento del conflitto»

03/04/2024  Parla il patriarca latino di Gerusalemme: «La guerra ha indurito il cuore di tutti ed è difficile mediare. A Gaza serve subito una tregua, perché la gente sta morendo di fame. E ai cristiani dico: è tempo di mettere da parte la paura e riprendere la via dei pellegrinaggi»

«Non vedo nessuna prospettiva politica né a breve né a lungo termine per fermare questo conflitto, soccorrere la popolazione palestinese di Gaza stremata dalla fame e dalle bombe e studiare un piano per la necessaria ricostruzione». È preoccupato il Patriarca Latino di Gerusalemme, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, d’origine bergamasca, per il conflitto nella Striscia che rischia di deflagrare e incendiare tutto il Medio Oriente. Il 1° marzo scorso, insieme ai Patriarchi e ai capi delle Chiese di Gerusalemme, ha firmato l’ennesimo appello per la pace mentre il lavoro complicatissimo della diplomazia per arrivare, se non a una tregua, almeno a un cessate il fuoco, fa a pugni con l’urgenza della popolazione di Gaza a cui manca l’essenziale per vivere: cibo, medicinali, acqua.

Eminenza, Gerusalemme è deserta?

«Sì. Rispetto agli anni scorsi c’è uno scenario surreale. Non ci sono pellegrini, tranne pochissimi gruppi di asiatici che arrivano prevalentemente da India e Indonesia. L’atmosfera, da questo punto di vista, richiama il deserto della pandemia ma allora era fermo tutto il mondo, adesso siamo noi al centro della tempesta».

C’è un messaggio che intende lanciare?

«In Terra Santa abbiamo bisogno di ricostruire la fiducia e la fiducia si fa con i gesti, non solo con le parole. È tempo di mettere da parte la paura e di riprendere la via del pellegrinaggio, che è una forma concreta di aiuto a tutte le popolazioni che vivono qui».

In una recente intervista papa Francesco l’ha definita una «figura cruciale» che «sta provando con determinazione a mediare».

«Il mio ruolo è quello di facilitare il dialogo tra le parti e tenere aperti tutti i canali di comunicazione anche se in questo momento è difficilissimo e non si vedono molte prospettive né a breve né a lungo termine. Si fa molta fatica a mediare perché questa crisi tra israeliani e palestinesi, la più grave degli ultimi 70 anni, ha polarizzato le posizioni e indurito i cuori di tutti».

Da settimane si parla di tregua, ma ogni tentativo della diplomazia internazionale sembra girare a vuoto. Lei cosa teme di più?

«Ci sono diverse preoccupazioni. La prima, di breve termine, è la situazione drammatica in cui vive  la popolazione di Gaza che è affamata e stremata. Faccio fatica al momento a vedere soluzioni reali, pratiche e concrete. Ci sono tanti progetti e idee ma si tratta di iniziative che richiedono molto tempo mentre invece la fame non aspetta e richiede misure efficaci e immediate. La seconda, di lungo termine, è che non vedo nessuna prospettiva politica per la fine della guerra. Così sarà molto difficile avere la pace e pensare alla ricostruzione».

Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre molti accusano il premier israeliano Netanyahu di essere andato oltre la legittima difesa. Lei che ne pensa?

«Su quello che è accaduto il 7 ottobre ci sono interpretazioni diverse. Non entro in questa disamina. Bisogna prendere sul serio l’appello del Papa che invoca il cessate il fuoco immediato e invita a cercare di risolvere il problema attraverso la politica, unica strada possibile. Per farlo, bisogna avviare il dialogo tra le parti e capire chi saranno gli interlocutori. Non ci sono altre vie».

Teme un allargamento del conflitto?

«Sì, soprattutto con il coinvolgimento del Libano. È un pericolo reale, mi auguro non accada. Siamo su una china dove tutto può precipitare o invece, se c’è la buona volontà, rientrare».

 È in contatto costante con la parrocchia di Gaza?

«Cerchiamo di venire incontro per quanto possibile alle loro richieste d’aiuto, ma ultimamente sta diventando molto difficile non solo far arrivare gli aiuti, ma anche trovarli. Nel complesso ortodosso sono ospitate circa duecento persone e in quello cattolico cinquecento. Ci sono una sessantina di disabili, curati dalle suore di Madre Teresa, anziani, bambini, donne sole, molti musulmani. Sono molto colpito dalla testimonianza di fede che la comunità cristiana di Gaza sta offrendo perché, pur vivendo una situazione orribile, è stanca e ferita ma in pace».

In tutta Europa da mesi si susseguono le manifestazioni soprattutto di giovani e studenti a sostegno del popolo palestinese. In alcuni casi, come è successo in Italia nelle scorse settimane, si è arrivati a impedire ad alcuni esponenti ebrei di parlare in università. Che impressione le fa tutto questo?

«È legittimo esprimere il dissenso sulla politica del Governo israeliano, ma questo non giustifica nessuna forma di antisemitismo e di razzismo».

Che in Occidente sta prendendo sempre più piede.

«Questo mi preoccupa molto. Noi non siamo contro Israele, ma vogliamo che i palestinesi abbiano diritto a una vita dignitosa nel proprio Paese e questo richiede il rispetto di tutti. Non si tratta di scegliere se stare con gli uni o con gli altri, ma di accogliere tutti nella propria prospettiva».

Il 24 ottobre ha scritto una lettera alla Chiesa di Gerusalemme in cui, affrontando il tema della sofferenza del giusto, ha scritto che il Signore non è una risposta, ma una presenza. Cosa significa?

«Nessuno dei problemi politici del tempo è stato risolto da Gesù. Egli ha portato un modo nuovo di stare dentro determinate situazioni. L’odio, la sofferenza e la morte restano, come vediamo dalla cronaca, ma il modo cristiano di stare dentro tutto questo è quello di essere illuminati dalla presenza di Cristo che dona speranza e dà la forza di vivere queste situazioni con un amore che è più grande del dolore e dell’odio».

(Immagine in alto: Reuters)

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