Lettori non si nasce, si diventa, per una serie di ragioni, alcune delle quali imperscrutabili altre meno. Ogni lettore ha i suoi percorsi, ma c’è nelle statistiche anche disomogenee un elemento che ricorre. E l’utimo aggregato di dati diversi diffuso da Openpolis l’11 novembre lo conferma: l’allergia alla lettura è ereditaria. È molto più difficile che si cominci a leggere in una famiglia dove nessuno lo fa, dove un papà o una mamma non abbiano avvolto il sonno di un bambino leggendo una storia. E, dopo, ancor di più, è complicatissimo appassionarsi alle parole scritte in case dove non ci sono libri in cui ficcare il naso.
Era bello lungo le estati dell’infanzia o della preadolecenza scoprire un giorno, un po’ per caso, che la noia delle pomeriggi poteva essere scacciata in un libro. Qualcuno di noi, bambino nell’era dei cartoni animati giapponesi ha scoperto un mondo, ritrovando nei classici per ragazzi europei letti dai genitori da piccoli e conservati, le storie già amate nei cartoni animati; e ha cominciato a leggere chissà se spinto dalla voglia di scoprire particolari che il cartone aveva omesso per brevità o per il piacere di prolungare una serie finita. E si finiva per scoprire che Heidi non era nata nel 1974 in Giappone dalla matita di Isao Takahata Ma molto prima, nel 1880, dalla penna della scrittrice svizzera Johanna Spyri.
Ma era probabile che la Tv anziché un’arma di distrazione di massa diventasse un innesco per lettori in erba soltanto se l’humus intorno era quello adatto: una casa in cui c’erano già dei libri, non solo a prender polvere, ma nelle mani di qualcuno che li viveva, li amava, li sdruciva, insomma li leggeva. Per qualche generazione precedente l’innesco era stato nei “giornalini” da Tex a Diabolik, ma anche lì funzionava se attorno qualcuno seminava, qualcosa che somigliasse alla cultura, diversamente non si sarebbe passati al libro ma al fotoromanzo e poi a niente del tutto.
Perché se è vero che le statistiche dicono che la metà dei ragazzi tra i 6 e i 18 anni che non legge un solo libro l’anno nel tempo libero, la statistica non migliora da adulti anzi: si sale al 60% per centro tra chi ha compiuto i 18 (Istat 2017). Il tema riporta a don Milani, a Mario Lodi, a Tullio De Mauro, alla presa di coscienza del fatto che la povertà non si misura soltanto a casa, a caldo, al minimo sindacale nel portafoglio, ma anche in termini di analfabetismo funzionale di ritorno: la povertà culturale si tramanda e non c’è motivo di pensare che nell’era un cui la Tv è stata sostituita dagli smartphone che nelle case sono assai diffusi si vada a migliorare. Si calcola, infatti, che nelle case dove i due genitori leggono anche i figli nel 66,9% dei casi vengono contagiati dal virus della lettura. Invece, al contrario, in quelle in cui i genitori non leggono solo 30,8% dei ragazzi si appassiona ai libri.
Dobbiamo, dunque, ritenere che in quel dato stabile da dieci anni almeno secondo cui in una casa ogni dieci in Italia non abita neppure un libro stia una delle chiavi di lettura del problema. Se poi quel dato viene incrociato con un altro di qualche anno fa, diffuso dall’Istat, secondo cui lettori si nasce statisticamente molto di più in case in cui la biblioteca supera i 200 libri, più o meno tre ripiani di un medio scaffale, si capisce che anche in questo campo si educa spesso - benché non siano impossibili altri percorsi – con l’esempio.
Anche se nell’era distraente degli smartphone e dei social, in cui i figli sono nativi digitali e i genitori no, il futuro è una terra incognita: quanto e come quell’esempio varrà ancora con altri mezzi? Un e-reader con dentro centinaia di volumi, compattati in una tavoletta elettronica, saprà ancora destare la curiosità per la biblioteca dei grandi come fin qui hanno fatto i titoli in costa ai libri di mamma e papà?