Come si fa ad umanizzare il diritto guardando prima alle persone che ai principi? La domanda è di quelle che fanno tremare i polsi ai giuristi e ai magistrati. Eppure è la domanda fondamentale sulla quale misurare la qualità della convivenza sociale. In altre parole: c’è una correlazione tra giustizia e misericordia? E quale? Sull’argomento si è misurato Enzo Bianchi, l’ex priore e fondatore della Comunità di Bose, invitato a parlarne martedì 24 ottobre al Consiglio superiore della magistratura nell’ambito dei martedì dell’Associazione Vittorio Bachelet nata in seno al Csm dopo l’uccisione da parte delle Brigate Rosse di Bachelet che del Csm era vice-presidente e attualmente presieduta dal professor Renato Balduzzi, membro laico del Csm.
Bianchi ha rilevato che “tutta la storia conosce la tensione tra esigenze di giustizia e istanze di misericordia”. E si tratta di una tensione “non eliminabile”. Insomma serve “la certezza della pena, ma anche la certezza della speranza”. Anche per applicare, ha sottolineato fratel Enzo, la “Costituzione, che coerentemente al suo impianto generale, sottolinea che la giustizia deve essere costantemente attenta alle persone, insistendo sulla funzione rieducativa della pena”.
Bianchi ha citato il Messaggio di Giovanni Paolo II per la Giornata mondiale della pace del 2002: “Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza misericordia”: “Venne accolto con un silenzio impressionante, anche nel mondo cattolico. Invece indicava un cammino per giungere ad una politica del perdono espressa anche in atteggiamenti e istituti giuridici”. Bianchi ha proposto un'ampia riflessione biblica per arrivare a spiegare la rivoluzione di Gesù che spezza “il rapporto che presiede ogni istituzione giuridica, quello tra delitto e castigo” e chiede di “perdonare fino a settanta volte sette”.
La traduzione sul piano giuridico non è facile, ma, ha aggiunto l’ex priore di Bose, “ci si può cimentare, per esempio ripensando i concetti di giustizia punitiva, retributiva, correttiva o rieducativa”. Ciò che serve è “un diritto mite, che richiede una lunga opera di educazione” nella società dove invece “negli ultimi vent’anni abbiamo assistito ad una progressivo imbarbarimento nei rapporti tra le persone e le comunità perché si è puntato sull’individualismo e sul narcisismo”, facendo emergere “il peggio degli italiani”.