Un tempo c’era il cantante-divo. Oggi è una fi gura scomparsa: Francesco Meli, il tenore che interpreterà la fi gura principale nel Don Carlo di Verdi che inaugura la nuova stagione della Scala, ne è una dimostrazione. «Penso che ormai non ci sia più in nessuna professione», commenta Meli. «Certo, la Tebaldi, Corelli, Lauri Volpi li conoscevano tutti. Oggi Meli, Luca Salsi, Anna Netrebko (i protagonisti dell’opera con Michele Pertusi e Ain Anger, ndr) non li conosce nessuno».
Come vive questa condizione?
«Questa perdita di popolarità emargina un poco il mondo dell’opera e lo rende vittima di stereotipi. Quando però la gente viene all’opera è difficile che non ne sia coinvolta».
La professione è cambiata?
«A livello professionale non è cambiato quasi niente. Ma oggi i cantanti devono essere più attenti alla scrittura musicale, alla recitazione, allo studio. Anche se mi arrabbio con chi non ci considera dei musicisti come gli altri. Noi abbiamo la voce, gli altri hanno uno strumento».
Ha sempre pensato al canto?
«Sempre. Soprattutto grazie a mio padre, grande appassionato, che aveva tutte le registrazioni di Pavarotti. Io mi mettevo le cuffie e cantavo, già da bambino. Ho imparato così tutto il repertorio! Ho iniziato a suonare il pianoforte a 11 anni, e una bravissima insegnante ci portava sempre a teatro. Poi l’incontro con Vittorio Terranova, da allora mio maestro, è stato determinante. Ho debuttato a 22 anni nel Festival dei due mondi di Spoleto e nel 2004, a 23 anni, ho cantato diretto da Riccardo Muti in Les dialogues des carmélites di Poulenc alla Scala. Dicono che sono raccomandato: ma i miei erano commercianti, mio nonno meccanico».
Ormai è considerato il più grande interprete verdiano...
«Non sopporto essere presuntuoso. Verdi è il drammaturgo della musica. Tutto è scritto nelle sue note».
Don Carlo che personaggio è?
«È un uomo dai mille volti. In ogni situazione, presenta un carattere diverso. In qualche modo è la vittima sacrificale di sé stesso. Don Carlo è la rappresentazione di qualsiasi società assolutistica. Ma anche del sacrificio, dell’amicizia, delle passioni. Perché Verdi rappresenta l’umanità, i suoi destini, e ci insegna a non commettere sempre gli stessi errori».
L’opera è uno svago?
«Non solo: e non va presa come forma di intrattenimento, ma come un incanto, come una visione di ciò che non si trova nel quotidiano. Pensi che mia figlia, la prima, quando era piccola veniva sempre con me e mia moglie (Serena Gamberoni, nota soprano con la quale Meli fa coppia anche in scena, ndr). Ma voleva che i costumi non fossero attuali, era incantata dalle scene non contemporanee, dalla magia dell’allestimento. Per lei il palcoscenico doveva essere una specie di Signore degli anelli. Di questo dovrebbero tener conto i registi».
Lei ha tre figli: vivranno con la musica.
«Hanno sempre ascoltato tutto, ma partecipano anche a un’altra nostra passione: “Make-a-Wish Italia” (Realizza un sogno): un’associazione della quale mia moglie e io siamo portavoce in Italia e che cerca di attuare i sogni dei bambini malati. C’è la bambina che vuole diventare una farfalla e volare, c’è il bimbo che sogna di fare il telecronista. E noi li facciamo volare, o fare le cronache. E in quei momenti loro dimenticano tutto e sono felici. E quando vedo che i miei figli giocano con loro e all’occorrenza sono loro d’aiuto, penso che l’umanità debba comportarsi così con chi ha bisogno».