Il cammino verso un
Sistema Comune Europeo d’Asilo giusto ed efficace? È ancora lungo,
nonostante ci siano stati degli sforzi come il “pacchetto asilo”
del giugno 2013. Lo dice il nuovo Rapporto dell’European Council on
Refugees and Exiles (ECRE) sui sistemi di asilo in 14 Stati
dell’Unione Europea; il report è stato redatto da un’alleanza
europea di 77 Ong e la parte italiana è stata curata dal Consiglio
Italiano per i Rifugiati (CIR).
Il suo direttore, Cristopher Hein,
sottolinea l’assenza di una visione comune sul tema: «In
questa Europa sembra contare più la fortuna che il diritto, più che
un sistema di protezione e asilo comune sembra di essere in una
lotteria per richiedenti asilo e rifugiati».
Eppure, è dal 1999 che l’Ue sta lavorando perché casi simili
vengano trattati nello stesso modo e portino agli stessi risultati in
tutti gli Stati.
Nel rapporto, dal
titolo significativo “Ancora non ci siamo. Il punto di vista delle
ONG sulle sfide per un sistema comune di asilo equo ed efficace”,
emergono grandi differenze rispetto alle norme procedurali, alla
tutela dei diritti, ai servizi d’integrazione e all’uso della
detenzione amministrativa dei richiedenti asilo. Per esempio, si
sottolinea come in molti Paesi non siano predisposti servizi
qualificati di interpretariato. È un problema: spesso il modo in cui
si racconta la propria storia di persecuzione risulta decisivo per la
concessione della protezione internazionale. Inoltre, a fronte di
norme sempre più complesse e difficili da “navigare” per
chiunque, è sempre meno garantita l’assistenza legale gratuita
durante la procedura. Se in Paesi come il Regno Unito questa
riduzione è dovuta alle misure di austerità per la crisi, in Stati
come Bulgaria, Polonia e Ungheria l’assistenza legale è
disponibile solo attraverso progetti finanziati da Fondi Europei, che
però ora non risultano più sostenibili.
La detenzione amministrativa è il punto che preoccupa di più le Ong
Le differenze
riguardano anche i possibili ricorsi in caso di diniego: quando si ha
poco tempo per presentare ricorso, come nel Regno Unito (2 giorni),
Paesi Bassi e Ungheria, di fatto l’appello è reso impraticabile.
Secondo le Ong, il diritto a un ricorso effettivo è minato anche
dall’assenza di una sospensione automatica dell’ordine di
espulsione del richiedente asilo, che in alcuni paesi (Italia, Paesi
Bassi, Austria) deve essere richiesto separatamente.
Una misura largamente
utilizzata in Europa è addirittura la detenzione amministrativa dei
richiedenti asilo, colpevoli solo di essere scappati da guerre e
persecuzioni.
È questo il punto di maggior preoccupazione secondo le
Ong: «L’impatto devastante
sulla salute mentale e fisica dei richiedenti asilo è stato
ampiamente documentato ed è stato dimostrato che la detenzione si
aggiunge alla loro vulnerabilità e mina l’accesso dei richiedenti
asilo ai diritti di base, come l’assistenza legale e ai ricorsi
effettivi. Oltre all’enorme costo umano della detenzione, diversi
rapporti hanno dimostrato che è anche economicamente costosa e più
cara rispetto a misure alternative».
Le condizioni di detenzione sono a volte pessime; in Grecia, dove
insieme agli adulti sono detenuti anche i minori non accompagnati,
sono state condannate come disumane e degradanti dalla Corte Europea
per i Diritti Umani.
E l’Italia? Secondo
Eurostat, più che in ogni altro Paese dell’Ue, le domande d’asilo
presentate sono dimezzate rispetto al 2011 (l’anno record dal 1990,
a seguito delle Primavere arabe), a differenza del totale europeo, in
crescita da 301 mila a 335 mila (le richieste siriane sono
triplicate). Rispetto al resto d’Europa, il nostro Paese ne esce
bene per quanto riguarda la detenzione amministrativa, poco diffusa.
Al contrario, l’Italia è richiamata per le condizioni di
accoglienza, accanto alla “strutturale” mancanza di posti: basti
pensare che l’assenza di standard minimi ha portato vari tribunali
tedeschi a impedire il ritorno di richiedenti asilo in Italia, poi
trasferitisi in Germania, come invece sarebbe stato previsto dal
Regolamento europeo di Dublino.
Spiega ancora Cristopher Hein: «In
Italia, l’accesso ai centri di accoglienza è estremamente
difficoltoso, sono molti i richiedenti asilo, infatti, che si trovano
settimane, a volte mesi, a vivere per strada nelle città che
dovrebbero accoglierli. Se si confronta questa situazione con quanto
succede in un Paese come la Svezia, che mette in campo un sistema con
più di 41.000 posti a fronte dei circa 11.000 disponibili in Italia,
si comprende quanto sia diversa l’aspettativa di vita materiale di
chi arriva nei diversi Paesi dell’Unione. D’altra parte, in
Italia, i tassi di riconoscimento di protezione sono tra i più alti
d’Europa. È per questa ragione che si assiste, ad esempio, al
ritorno in Italia di rifugiati di origine afghana, che hanno ricevuto
un diniego alla loro richiesta d’asilo proprio nei Paesi del Nord
Europa e che rientrano nel nostro per vedersi riconosciuta una forma
di protezione».