«“Guerra”. Quando sento questa parola ho paura. Ha portato via vite innocenti, la felicità e il sorriso. Ha portato tanta tristezza, dolore e morte. Adesso è qui tra noi e ora conosco questo orrore. La gente ha fame e muore. Una mattina, appena mi sono svegliata, ho saputo che hanno messo dei blocchi stradali per non uscire dalla città. Mi sono spaventata molto e rattristata». Un tema di scuola. La grafia, tonda e inclinata, è un po’ esitante, come può esserlo quella di una bambina di 12 anni. Le parole potrebbero essere state scritte oggi, a Kyiv, a Bucha, a Irpin o in qualsiasi altro posto del mondo martoriato dalla guerra. Ma subito l’occhio cade sull’angolo in alto a destra del foglio, dov’è riportata la data: 16 marzo 1992. E la città di cui il testo parla è Sarajevo. Mancavano pochissimi giorni all’inizio del tremendo assedio, che durò dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996. La bambina del compito in classe si chiama Sandra Kokorus. All’epoca era in seconda media. Oggi ha 42 anni.
A raccogliere il suo quaderno, abbandonato in una scuola ridotta a macerie, con il ritratto del maresciallo Tito simbolicamente in frantumi, fu Paolo Siccardi, fotoreporter di grande esperienza e sensibilità, storico collaboratore della nostra testata, che seguì e documentò, a più riprese, il tremendo assedio. A distanza di trent’anni, quelle memorie di guerra riaffiorano e diventano una mostra, “La lunga notte di Sarajevo”, allestita a Torino, fino al 19 marzo, presso il Mastio della Cittadella, Museo Storico Nazionale d’Artiglieria.
L’esposizione raccoglie trenta scatti in bianco e nero, di medio-grande formato. L’obiettivo di Siccardi, sempre scrupoloso ed empatico, ci conduce nel cuore di una città straziata, soffocata, violentata, eppure sempre, incredibilmente viva. «Sì, perché, in quella guerra, come in ogni guerra, nonostante tutto, la vita quotidiana, pur sconvolta, andava avanti. I bambini cercavano di andare a scuola, anche se gli edifici erano distrutti. E la gente si ingegnava per sopravvivere. E qualche volta, per surreale che sembri, si allestivano perfino spettacoli teatrali» ricorda il reporter torinese. Era un tentativo, disperato, di aggrapparsi alla vita. È proprio questa quotidianità sconvolta che le foto raccontano, con una potenza che è data solo alle immagini: la gente in fila per il pane, i volti allucinati di terrore, i feriti, gli angoli di città ridotti al nulla, le armi in vista.
La prima volta che Siccardi entrò a Sarajevo fu nel dicembre 1992, in occasione della marcia per la pace (ricordata anche come “marcia dei 500”), un unicum nella storia: personalità di diverse estrazioni culturali, ma con una decisiva centralità del mondo cattolico (c’erano, tra gli altri, il venerabile don Tonino Bello, in quel momento vescovo di Molfetta, e l’allora vescovo di Ivrea, monsignor Luigi Bettazzi), vollero dar vita a un’iniziativa “dal basso”, per esprimere vicinanza alla popolazione e testimoniare una pace possibile, seppur in un contesto disperato. Anche Famiglia Cristiana seguì la marcia, raccontandola ttarverso i reportage di Alberto Chiara.
Dopo quella prima occasione, Siccardi fece ritorno nella città assediata un’altra decina di volte, scegliendo sempre di alloggiare non all’hotel Holiday Inn, come la maggior parte degli inviati internazionali, ma in centro città, presso una famiglia. Un punto d’osservazione privilegiato, anche se, indubbiamente, molto più scomodo e rischioso. Le fatiche e i disagi erano gli stessi della gente del posto: cibo e acqua che scarseggiavano, la difficoltà di scaldarsi. «I momenti più assurdi» ricorda il fotografo «paradossalmente erano quelli in cui non si sentivano le esplosioni delle bombe o i colpi dell’artiglieria. Allora scendeva un silenzio spettrale, perfino più tremendo degli spari».
Impossibile visitare la mostra senza soffermarsi su uno scatto, divenuto un emblema, quasi un’icona. Un musicista, in smoking e papillon, suona il violoncello vicino ai binari della ferrovia. Si chiama Vedran Smailović ed è divenuto celebre come “il violoncellista di Sarajevo”. Negli anni dell’assedio eseguiva l’Adagio di Albinoni tra le macerie, per chi era rimasto vivo e per le innumerevoli vittime. Suonava anche ai funerali, rischiando la vita, poiché spesso le cerimonie di commiato venivano prese di mira dai cecchini. Solo due fotografi, tra i quali, appunto, Siccardi, sono riusciti a immortalarlo. E ancora oggi, a distanza di trent’anni, quel gesto musicale, così nobile e così pulito – l’archetto appoggiato alle corde, il corpo che quasi abbraccia lo strumento – resta un segno di speranza, un inno alla vita più forte di ogni orrore.
La mostra è organizzata dall’associazione La porta di Vetro e dal suo presidente Michele Ruggero, con la curatela di Tiziana Bonomo. È ospitata presso il Museo Storico Nazionale d’Artiglieria, in collaborazione con Anarti (Associazione Artiglieri d’Italia). I testi della mostra sono di Marco Travaglini.