Dove finisce la libertà di espressione e dove comincia il senso del proprio ruolo? Può una maestra dire, presumibilmente, in classe che il turpiloquio non è ammesso e poi rovesciare epiteti volgari contro gli agenti delle forze dell’ordine in piazza, un luogo pubblico dove tutti possono sentire? Può gridare “Fate schifo, dovete morire” agli agenti che in piazza rappresentano lo Stato e poi tornare in classe a rappresentare quello stesso Stato in una scuola pubblica senza cadere in contraddizione? Può farlo tenendo conto del fatto che “Siete delle m.” e “Dovete morire” tecnicamente, per lo Stato italiano, non sono espressioni qualunque, ma esempi di ingiuria e minaccia?
Può farlo tenendo conto che a scuola, come diceva Mario Lodi, i bambini fanno di fatto il loro primo incontro con lo Stato ed è una classe il primo luogo non familiare in cui sperimentano le dinamiche che rendono possibile la convivenza senza regolare a botte o a insulti ogni divergenza d’opionioni?
Non tocca a noi dire se una maestra che si comporta così meriti una sanzione disciplinare o un'indagine penale (entrambi i procedimenti sono aperti al Miur e alla Procura di Torino), perché per questo ci sono gli organi deputati, ma quello che certamente possiamo dire è che il ruolo esige coerenza e che si pone certamente una questione di opportunità: come farà da oggi in poi quella maestra a dire a un bambino, che proverà ad apostrofare un insegnante o l’operatore che pulisce la sua classe con parole identiche a quelle usate da lei in piazza, che non è ammissibile e che non si fa? Potrà forse provare a dirlo, ma avrà perso ogni credibilità.
Se poi invece insegnerà che la Polizia si può in insultare liberamente, anziché spiegare che lo strumento per difendersi in uno Stato democratico sono le vie legali e istituzionali e che lo sono anche quando fosse un agente a commettere abusi, avrà messo in crisi il proprio ruolo di insegnante, rinnegando le regole dello stesso Stato che rappresenta lavorando: una contraddizione difficile da sanare.