Alessandro Manzoni aveva già capito tutto. Solo chi diceva che
al Nord la mafia non esiste, poteva pensare che quel metodo
intimidatorio, grazie al quale bastava un nome, per piegare i diritti
alla prevaricazione, l’avesse “inventato” don Lisander facendo
emergere dal nulla della fantasia l’incontro tra don Abbondio e i bravi.
Troppo bello per essere anche vero, ma adesso, come si dice, “è
Cassazione”. La ‘ndrangheta al Nord esiste e c’è la prova che,
ovunque faccia affari sporchi, non è una faida tra ‘ndrine isolate, ma
un struttura ramificata e unitaria, anche se con una struttura verticistica
diversa da quella riconosciuta per cosa nostra.
Il Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti plaude all'efficacia dell'inchiesta e dei processi e definisce la sentenza di «eccezionale importanza». Chi studia la storia della criminalità organizzata ritiene che la sentenza definitiva relativa al troncone milanese del
processo noto alle cronache come Crimine-Infinito, condotto tra Milano e
Reggio Calabria, - abbia portata storica, in termini di conoscenza del fenomeno e di creazione di un precedente significativo, in fatto di giurisprudenza. C'è anche chi la paragona a quella del maxiprocesso di Palermo del 1992.
Anche per questo fa un po’ impressione che il maxiprocesso di Milano faccia molta meno notizia di quello di allora a Palermo, quasi che ci si fosse assuefatti al rischio o, peggio, alla tentazione di cullarsi nell’incoscienza.
Se ci avessero detto vent’anni fa che 22 anni dopo avremmo
assistito a un maxiprocesso milanese di criminalità organizzata con
centinaia di imputati, che sarebbe durato meno di 4 anni tra chiusura delle
indagini e conferma in Cassazione, avremmo gridato a una previsione malata di catastrofismo, dimenticando che la litania della mafia che non esiste, aveva già avuto tanti precedenti al Sud, negati, finché il maxiprocesso palermitano non li ha messi nero su bianco in Tribunale. Ma ora che il punto fermo arriva a Milano quasi non se ne parla. Eppure, altre inchieste tra gli anni Novanta e primi anni duemila, sempre a Milano, avevano acceso luci, magari meno diffuse, ma significative sul problema, altri processi sono in corso a Torino.
Ma c’è ancora chi si sente offeso: offeso non dall’esistenza di una locale di ‘ndrangheta che si chiama La Lombardia, offeso non dal fatto che sia potuto accadere, ma offeso dalle parole come pietre che la scolpiscono in una sentenza. E forse il problema è proprio qui: invece di indignarsi perché le cose contenute nelle sentenze accadono ci si indigna perché qualcuno indaga e le svela. Invece di voler capire per prevenire, si preferisce non sapere. Ma non è chiudendo gli occhi che si risolvono i problemi, e le cronache sulla corruzione lo dimostrano.
A chi le ricorda, però, alla prova dell'attualità fanno eco le parole, scosse di commozione e di
rabbia, che tuonarono ventidue anni fa nell’aula magna del palazzo di
giustizia di Milano: «Oggi è finita la Duomo connection, alla quale
Giovanni e io avevamo lavorato assieme. La mafia si può sconfiggere. Ma
esiste, signor procuratore. A Milano come a Palermo, non ci sono
confini».
Oggi era il 25 maggio 1992, la Duomo connection era il primo
processo che chiamava in causa la mafia, cosa nostra in quel caso, a
Milano. Giovanni era Giovanni Falcone, saltato per aria due giorni prima a Capaci su mezza tonnellata di tritolo, le parole erano di Ilda Boccassini che vent’anni dopo, da capo della
Direzione distrettuale antimafia milanese, in sinergia con Giuseppe
Pignatone, Michele Prestipino e Nicola Gratteri a Reggio Calabria, ha coordinato insieme ai sostituti procuratori Alessandra Dolci e Paolo Storari l’indagine portata al vaglio della Cassazione il 5 giugno scorso.
La linea della palma non si ferma, il malaffare prospera, ma, almeno, Giovanni
Falcone aveva ragione: «Se succede qualcosa a me altri continueranno». La magistratura, però, non può arrivare che a reati già commessi. Ad altri spetterebbe provare
a prevenirli. Ma spesso sono gli stessi che preferiscono non vedere.