È possibile sconfiggere le mafie, come recita lo slogan della ventottesima edizione della Giornata della memoria in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Ci crede Libera, che promuove ogni anno l’iniziativa, ci crede la società civile. Anche se il sistema mafioso è tutt’altro che debole. Quest’anno la ricorrenza fa tappa a Milano principalmente per due motivi», spiega don Luigi Ciotti, presidente dell’associazione.
Quali?
«Primo, perché la consapevolezza che le mafie sono presenti dovunque, nel nostro Paese e nel mondo – e tanto più dove ci sono capitali economici e finanziari – è ancora debole. Milano e la Lombardia, dal dopoguerra, sono la “locomotiva” economica del nostro Paese e quindi, da almeno trent’anni, terra di conquista delle organizzazioni criminali. Secondo, perché vogliamo ricordare la strage mafiosa di via Palestro, dove il 27 luglio 1993 morirono cinque persone. I più, quando si parla di attentati mafiosi, pensano al ’92, a Capaci e via d’Amelio. È bene sottolineare che la stagione degli attentati e delle stragi durò un biennio, perché trent’anni fa, il 27 maggio, Cosa nostra uccise anche cinque persone a Firenze, in via Georgofili, il 28 luglio colpì a Roma le chiese di San Giorgio Velabro e San Giovanni in Laterano, in risposta alle sferzanti parole pronunciate il 9 maggio dalla Valle dei Templi di Agrigento da papa Giovanni Paolo II, quando, denunciando il crimine mafioso, definì i siciliani “popolo che ama la vita, oppresso da una civiltà della morte”. E sempre a Roma, nel ’93, ci furono i falliti attentati allo stadio Olimpico e a Maurizio Costanzo».
Dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro, e la doverosa esultanzacome non perdere l’attenzione sul sistema mafia?
«La cattura di Messina Denaro è un fatto importante, ma pur sempre la tappa di un cammino ancora molto lungo, che richiede impegno e costanza, collaborazione e condivisione. Il sistema mafia è tale anche perché non più riducibile ai suoi “boss”. È un sistema che prevede un costante ricambio e interscambiabilità dei ruoli. Più di vent’anni fa, un acuto osservatore del fenomeno mafioso, Daniele Billitteri, scrisse: “L’ultima mafia è sempre la penultima, anche perché il codice genetico della mafia affida alla sua creatura un imperativo primario: quello di sopravvivere”. Parole lungimiranti che ci ricordano come per mantenere l’attenzione sulle mafie è necessario mantenere viva quella sui fenomeni sociali, perché le mafie non sono più un “mondo a parte” ma parte di questo mondo, un mondo che ha elevato il profitto a valore assoluto e dove tutto rischia di essere ridotto a merce». «Combattere contro le mafie vuol dire lottare per la giustizia sociale, per la dignità e la libertà delle persone, vuol dire lottare per la vita».
Da Milano a Palermo le mafie sono sempre più capillari. Cosa fare anche come società civile?
«In Italia disponiamo di un testo che, pur non nominando mai la parola “mafia”, spiega tutto ciò che sarebbe necessario fare, come cittadini e come istituzioni, per costruire una società libera dal crimine organizzato: la nostra Costituzione. Per impedire alle mafie di inquinare, corrompere e lacerare il tessuto sociale bisogna realizzare uno Stato che, garantendo i diritti fondamentali – il lavoro, la casa, lo studio, le
cure sanitarie – realizzi quella democrazia sostanziale che non lascia varchi né margini alle mafie. Ma insieme occorrono cittadini artefici e custodi del bene comune. In tal senso non parlerei più di “società civile”, espressione in fondo retorica perché non basta essere cives, cittadini, per essere “società”: bisogna essere cittadini responsabili e corresponsabili. Quanto alla presenza sempre più capillare delle mafie, bisogna interrogarsi profondamente sulla natura criminogena del sistema economico cosiddetto “liberista”, sistema che ha reso l’economia un mercato globale. Le mafie si sono perfettamente adattate a questo sistema diventando organizzazioni criminali con un forte aspetto imprenditoriale. Organizzazioni che si avvalgono della complicità di professionisti esterni o che maturano al loro stesso interno le competenze tecniche e tecnologiche necessarie per muoversi nelle praterie del mercato economico- finanziario razziando e rubando il più possibile. Sono i reati tributari quelli che oggi garantiscono alle mafie i maggiori profitti e in tale senso Messina Denaro è stato certamente una figura decisiva nella trasformazione della mafia da compagine militare a sistema imprenditoriale. La mafia attuale sa conciliare tradizione e innovazione, i “business” più o meno classici come il traffico di droga, l’usura, il racket della prostituzione, la tratta delle persone migranti, e crimini all’apparenza immateriali, commessi senza lasciar traccia, con “guanti di velluto” e la complicità di “colletti bianchi”. Reati che sono ormai quasi legge nel disumano impero del denaro».
La questione Calabria. Sembra che continui a permanere il cono d’ombra che fa prosperare la ’ndrangheta. Si parla poco persino del processo “’Ndrangheta stragista” che testimonia i legami con Cosa nostra e la partecipazione attiva nella strategia di pressione sullo Stato. Come rompere il silenzio?
«La forza delle mafie – lo ripeto nel mio piccolo da vent’anni – è fuori dalle mafie. È una forza fatta di omertà, complicità, omissioni e silenzi. Le prime forme di mafia risalgono alla seconda metà dell’800 e tra attività criminale mafiosa e poteri dominanti c’è da sempre una profonda convergenza di interessi. All’inizio l’alleanza era tra aristocrazia del latifondo – i proprietari terrieri – e manovalanza criminale, con l’urbanizzazione degli anni ’50 e ’60 del secolo scorso è diventato un gioco di sponda fra le cosche mafiose e parti cospicue del potere politico, “gioco” con cui ancora oggi dobbiamo fare i conti. La mafia è stata insomma un fatto, prima che criminale, “politico”, una forma di corruzione del potere, e la politica propriamente detta non ha dimostrato, tranne virtuose eccezioni, una ferrea volontà di combatterla. Rompere il silenzio non significa dunque solo parlare ma far seguire alle parole i fatti. Per sconfiggere le mafie – a cominciare dalla ’ndrangheta, oggi la più potente – non bastano gli arresti e i processi, ma occorrono l’impegno sociale e un complessivo mutamento della cultura e dei costumi».