A chi gli chiedeva se valesse la pena di morire per questo Stato, Giovanni Falcone, che un po' se l'aspettava, rispondeva: «Non conosco che questo Stato». Le cronache di questi giorni ci parlano di metodi di indagine in relazione alla riforma della giustizia, di 'ndrangheta che "colonizza" la Lombardia, di un Consiglio comunale, Bordighera in Liguria, sciolto per infiltrazioni mafiose, di boss che prendevano accordi, in massimo sfregio alla memoria, in una stanza intitolata a Falcone e Borsellino, con un'immagine dei due magistrati uccisi nel 1992, a "vegliare" su di loro.Ce n'è abbastanza per chiedere a don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, una chiacchierata a tutto tondo, che nulla di questa attualità risparmi, proprio in occasione della Giornata in memoria delle vittime di mafia. Cominaciamo da qui.
Don Ciotti, il 19 e il 21 marzo "Libera" ha celebrato come ogni anno la giornata in memoria delle vittime di mafia. Manca un anno ai vent’anni dalla morte di Falcone e Borsellino. Cos’è rimasto del loro percorso?
«Il loro percorso non rimane, continua. E continua non a parole, ma nei fatti. La memoria di Falcone, di Borsellino, come di tutte le vittime innocenti delle mafie – sarebbe sbagliato citarne solo alcune, ed è per questo che ogni anno, il 21 marzo, le vogliamo ricordare tutte – si fonda sull’impegno. Quelle persone non sono morte per essere ricordate ma perché credevano in un ideale di giustizia che sta a noi raccogliere e vivere fino in fondo. Le loro sono memorie scomode, che ci sollecitano ogni giorno dell’anno, in ogni istante della nostra vita, non solo in occasione degli anniversari e delle ricorrenze. Per questo l’eredità di Falcone e Borsellino non riguarda solo la magistratura, quel modo innovativo di indagare che visse col pool antimafia di Palermo, guidato da Nino Caponnetto, la sua grande stagione. È un’eredità spirituale che riguarda tutti noi, e che si concretizza nell’impegno di chi svolge la sua professione e la sua vita sociale con responsabilità, rigore, coraggio, coerenza»
Don Ciotti, l'attualità ci racconta di mafie che colonizzano il Nord, abbiamo perso gli anticorpi?
«Gli anticorpi ci sono, bisogna attivarli. La penetrazione delle mafie al nord come sulle scene internazionali nasce spesso da un vuoto etico, da una povertà non tanto materiale ma morale. Troppo a lungo si è pensato alle mafie come a una realtà solo di certe regioni e a fenomeni strettamente criminali, senza vedere che la loro forza è soprattutto al di fuori di esse: nel bacino di connivenze e complicità, nell’indifferenza e nella presunzione che quello del crimine organizzato sia un problema degli altri. Le mafie hanno sempre mirato a infiltrare l’economia e condizionare la politica. Lo hanno fatto in passato e continuano a farlo con nuovi strumenti e maggiore capacità di penetrazione, approfittando di un tessuto sociale oggi molto fragile e disgregato. Hanno trovato terreno fertile nell’individualismo irresponsabile, nella povertà delle relazioni e dei legami sociali, nella riduzione del lavoro a merce, nella perdita di coscienza civica e di senso del bene comune, nelle leggi fatte non a tutela di tutti ma per garantire il privilegio di pochi. C’è, nel nostro paese, un’illegalità diffusa che non va confusa con le mafie, ma che rafforza una mentalità favorevole alle logiche mafiose. Per questo abbiamo promosso una campagna di raccolta di firme contro la corruzione. È inaccettabile che non sia stato ancora ratificato il trattato europeo di Strasburgo del 1999. Corruzione significa 60 miliardi di euro sottratti ogni anno ai servizi sociali, alla scuola, al lavoro, alla sanità, cioè alle basi della democrazia: una tassa di 1000 euro per ogni cittadino! In una società capace di garantire di più i diritti, la corruzione non avrebbe questo spazio. Aveva ragione allora il prefetto Dalla Chiesa quando diceva che per sconfiggere le mafie bisogna dare come diritto ciò che esse offrono come favore. Non si possono costruire o riattivare gli anticorpi se manca una politica che abbia davvero a cuore il bene comune, senza dimenticare però che la politica, per essere migliore, ha bisogno della responsabilità e dell’impegno di ciascuno di noi».
Don Ciotti, esiste il rischio che il discredito sulla magistratura additi alle mafie nuovi obiettivi già di per sé sensibili?
«Le mafie “esultano” quando alla magistratura o alle forze di polizia viene sottratto o si annuncia di voler sottrarre qualche prezioso strumento d’indagine. È il caso del disegno di legge sulle intercettazioni, che si vorrebbe riproporre con il pretesto della privacy, per la quale giustamente esistono già misure di tutela. S’ignora o si finge d’ignorare che le intercettazioni si sono rivelate molte volte decisive per colpire le mafie o risalire alle mafie attraverso indagini su reati collaterali, e che stralciare da quel disegno di legge la “norma Falcone”, che prevede appunto indagini ad ampio raggio, significa fare un regalo alle cosche. Preoccupa poi la riforma di legge sulla giustizia, avanzata in un clima che non favorisce di certo il dialogo e il confronto. Non voglio entrare nel merito del testo perché attendo come tutti di conoscerne i dettagli, ma dalle anticipazioni emerge, al di là di qualche passaggio condivisibile, un disegno allarmante, quello di sottomettere l’autorità giudiziaria, e in particolare la figura dei pubblici ministeri, al potere politico. Rompendo la divisione dei poteri su cui si fonda la democrazia e cancellando quel caposaldo della Costituzione che è l’articolo 101: «i giudici sono soggetti soltanto alla legge». Non dimentichiamo che è stato altissimo il prezzo pagato dalla magistratura nella lotta alla mafia e, prima ancora, al terrorismo. Venticinque vittime, tra il 1969 e il 1995. Ben vengano allora le riforme, a patto però di salvaguardare due punti essenziali: l’indipendenza della magistratura e l’uguaglianza dei cittadini, anche dei magistrati, di fronte alla legge».
Don Ciotti, la coordinatrice della Direzione distrettuale antimafia di Milano Ilda Boccassini ha manifestato preoccupazione per la cosiddetta zona grigia: troppo poche le denunce di estorsione in Lombardia. Come si distingue il confine tra la paura e la convenienza?
«Il confine è labile. Ma certo non vanno confusi il commerciante o l’imprenditore che consapevolmente accettano di stabilire con le mafie un rapporto di reciproco interesse, con chi si sottomette al ricatto mafioso per paura. Per tracciare un confine più netto gioca un ruolo decisivo la presenza o meno di reti di protezione. È stata anche l’assenza di questa rete ad avere causato la morte di Libero Grassi, l’imprenditore siciliano che nel 1991 coraggiosamente denunciò il racket mafioso, ed è per rompere questa solitudine che sono nate la Fai (Federazione antiracket) o iniziative come “Reggio-Libera-Reggio”, rete che Libera, insieme ad altre 60 realtà, ha promosso in Calabria per dare una mano agli imprenditori e commercianti calabresi che rifiutano di sottomettersi al pizzo. È importante poi che le stesse professioni si diano regole vincolanti. Libera ha avuto il piacere, recentemente, di tenere a battesimo la “Carta etica dei professionisti modenesi”. Per la prima volta in Italia un coordinamento provinciale di tutte le professioni ha promosso uno strumento a favore della legalità che prevede misure fino alla radiazione di chi è condannato per reati di associazione mafiosa o favoreggiamento. L’augurio è che altre regioni e province del nord seguano l’esempio di Modena, nella consapevolezza, però, che “etica” non può significare solo enunciazione di regole e di prescrizioni, per quanto giuste e condivise. L’etica chiama in causa le nostre coscienze, la nostra responsabilità, le nostre piccole e grandi scelte quotidiane. Chiede a ciascuno di noi di contribuire perché la vita sociale sia per tutti libera e dignitosa, perché i diritti abbiano la meglio sui privilegi, e le aspirazioni dell’“io” confluiscano nelle speranze del “noi”».
Don Ciotti, Nicola Gratteri dalla procura di Reggio Calabria invita la Chiesa a schierarsi con più decisione contro le mafie, notando la pericolosa predisposizione degli esponenti della ‘ndrangheta a cercare nelle feste religiose la vetrina e la cartina di tornasole del proprio potere. Ha ragione?
«Le mafie, non solo la ‘ndrangheta, hanno sempre ostentato attenzione alla dimensione religiosa. Ma è una religiosità di facciata, interessata soprattutto agli aspetti esteriori della fede, non vincolanti sotto il profilo etico e morale. Nel passato, e purtroppo ancora oggi, non sono mancate nella Chiesa posizioni ambigue fino a forme compiacenza e collusione. Questo non può farci dimenticare l’impegno di tanti uomini di Chiesa nei contesti più difficili, così come la denuncia di Giovanni Paolo II, quando dalla Valle dei Templi di Agrigento, pochi mesi prima degli omicidi di don Puglisi e di don Peppe Diana, definì la mafia un «peccato sociale» e «una civiltà di morte», invitando pubblicamente i mafiosi a convertirsi. Parole che hanno avuto un’eco in quelle pronunciate lo scorso 3 ottobre a Palermo da Benedetto XVI, quando ha definito la mafia «strada di morte incompatibile col Vangelo». La Chiesa deve procedere nel suo processo di purificazione, a tutti i livelli, e presentarsi povera di fronte al potere. Ci sono due cose che come cristiani e come cittadini non ci sono permesse: la prima è ubbidire alle ingiustizie, la seconda è rendercene complici attivamente o passivamente, attraverso l’indifferenza, la rassegnazione, la superficialità. L’impegno contro la mafia non è solo politico, culturale ed educativo, ma può e deve essere anche evangelico. Il Vangelo come strumento di giustizia, di affermazione della dignità e della libertà umana non può che chiedere agli uomini di Chiesa parole di denuncia e un impegno netto contro le mafie e tutte le forme di abuso, di corruzione, di illegalità che delle mafie sono spesso l’anticamera».
Don Ciotti, a Milano durante l'incontro con Mario Draghi, ha parlato di degrado della moralità pubblica, si è detto disgustato ancor più che di indignato che cosa la inquieta di più?
«L’indifferenza, l’anestesia delle coscienze, la rassegnazione, la delega. È necessario risvegliarci. Ma indignarsi non basta più: occorre darsi da fare. Nella consapevolezza che l’impegno è, con la relazione, l’essenza di una vita libera. E che il primo compito che la vita ci affida è quello d’impegnarci per chi ancora libero non è».