“C’è l’antimafia delle manette, quella sociale e dei diritti e quella della cultura. Devono viaggiare insieme e alla stessa velocità per sconfiggere le mafie”. A 50 anni dall’avvio dei lavori della Commissione antimafia e alle soglie della pensione il procuratore Gian Carlo Caselli spiega perché il fenomeno non solo non è stato sconfitto, ma si è allargato a macchia d’olio. Ma lascia anche uno speranza perché “come diceva Giovanni Falcone: la mafia è una vicenda umana come tutte le altre e come ogni vicenda umana ha un inizio, uno sviluppo e potrebbe benissimo avere una fine”.
Fine che sembra ancora tanto lontana, però.
Io credo che sia possibile sconfiggere la mafia nonostante il suo camaleontismo, la sua purtroppo straordinaria capacità di adattarsi alle varie fasi che la interessano in modo da resistere anche ai colpi più duri per potersi poi ripresentare magari meglio organizzata di prima. Questo camaleontismo è una caratteristica riscontrabile nei secoli. Però credo anche in ciò che diceva Falcone, parole frutto della sua intelligenza, esperienza, della sua capacità unica al mondo di penetrare, capire in profondità questi fenomeni. Soltanto che questa cosa non basta dirla, bisogna organizzarsi perché accada e organizzarsi con continuità, non con alti e bassi, luci e ombre, momenti positivi e periodi, di solito più lunghi, negativi. Anche questa è una caratteristica costante che attraversa la storia di mafia.
Diceva delle tre antimafie. Come devono agire?
Quella repressiva, che tocca alle forze dell’ordine e ai magistrati, si basa anche sulla capacità di capire e penetrare l’organizzazione mafiosa. Per decifrarla occorre avere a disposizione gli strumenti che ne svelano i segreti. Altrimenti le si gira attorno , se tutto va bene e si è fortunati, si scalfisce qualche scheggia della corazza esterna della mafia, ma dentro non si va. Per entrare dentro ci vuole una password, una specie di grimaldello e questa password e questo grimaldello sono rappresentati dalla conoscenza dei segreti di mafia. Ma per conoscerli ci vuole qualcuno che te li racconti. Possono essere le intercettazioni e quindi guai a toccare questo strumento indispensabile. Ma anche per le intercettazioni sono preliminarmente indispensabili le collaborazioni dei pentiti perché bisogna sapere dove mettere le cimici, sapere quali telefoni intercettare. Una volta aggredita l’organizzazione che è l‘oggetto primario non bisogna accontentarsi dei mafiosi di strada, dei mafiosi una volta con coppola e lupara, oggi non più soltanto questo. Bisogna attaccare anche le relazioni esterne (naturalmente con tutte le garanzie di diritto), cioè l’intreccio labirintico di affari comuni, di interessi reciproci, in sostanza di coperture, complicità, collusioni che sono la spina dorsale delle mafie.
Non basta dunque mettere dentro soltanto chi spara?
Bisogna fare attenzione. I mafiosi sono gangster perché commettono anche i reati previsti dal codice penale – rapine, estorsioni, omicidi, stragi, traffici di droga, armi, rifiuti tossici, esseri umani, organi di esseri umani, appalti truccati, riciclaggio -, però non sono soltanto gangster. Se fossero soltanto questo scomparirebbero come tutte le bande di gangster in qualunque parte del mondo. In Italia abbiamo le mafie da almeno due secoli. Questa persistenza significa capacità di adattarsi, di poter contare su appoggi, coperture, connivenze, che sono, appunto, le relazioni esterne. Non attaccare – naturalmente nelle ipotesi in fatto e in diritto riconosciuti e sussistenti – anche le relazioni esterne, anche le coperture significa aggredire la mafia soltanto a metà lasciando fuori dall’obiettivo giudiziario la parte più consistente e pericolosa. E poi vanno attaccati nel patrimonio. Al carcere sono abituati, attrezzati. Temono di più di essere toccati nel portafoglio. Accumulano ricchezze immense ed essere aggrediti anche su questo versante è decisivo. E qui non si può non ricordare l’antimafia sociale, l’antimafia dei diritti.
La seconda antimafia di cui si parlava. Anche questa è decisiva?
Ripeto, devono camminare insieme. L’antimafia dei diritti, quella che - attraverso il sequestro e la confisca dei beni dei mafiosi e la loro assegnazione ad attività socialmente utili – restituisce alla collettività il male tolto, dimostra che l’antimafia e la lotta all’illegalità sul versante mafioso paga in termini di lavoro, di iniziative imprenditoriali libere. Dimostra che coloro che, in determinate aree del nostro Paese, sono succubi della mafia possano diventare alleati dello Stato.
E poi c’è l’antimafia culturale. Cosa significa?
Che oltre a catturare i latitanti, ricostruire i delitti di mafia, accertare le responsabilità, fare i processi, eseguire le condanne, restituire alla collettività il male tolto, c’è anche bisogno di discutere, spiegare, confrontarsi con la gente, soprattutto con i giovani. Occorre spiegare e far vedere che i mafiosi e la mafia non sono uomini d’onore, non sono associazioni benefiche che danno lavoro, non sono uomini di pacificazione. Sono criminali, criminali spietati, pericolosi. Che arrivano al punto di sequestrare il figlioletto tredicenne di un collaboratore, tenerlo prigioniero per 18 mesi durante i quali lo sottopongono a maltrattamenti di ogni tipo, per poi ucciderlo strozzandolo a mani nude e sciogliere il suo cadavere nell’acido. La colpa di questo bambino, sto parlando di Giuseppe Di Matteo, era di essere figlio di Santino cioè l’uomo che aveva rivelato il segreto dei segreti di cosa nostra e cioè di come era stato materialmente eseguito l’attentato di Capaci. Come magistrato sono stato io a raccogliere la prima confessione di Santino Di Matteo e, conseguentemente insieme con i miei colleghi, ho dovuto poi registrare con angoscia la tragedia che lo ha colpito attraverso il figlio. Questa è la mafia: violenza estrema, efferata, prepotenza, il peggio del peggio che si possa presentare. Di questo bisogna parlare soprattutto con i ragazzi, soprattutto là dove il mito del mafioso uomo di onore può ancora fortemente attecchire.
Perché il tema mafia è sparito dal dibattito politico?
La crisi economica allontana ogni altro tema. Ma in questo caso è un allontanamento indebito perché la crisi economica ingrassa le mafie. Lo diceva Draghi quando era presidente della banca d’Italia – ma basta guardarsi attorno per vedere che è così – in questo momento di crisi economica i mafiosi non hanno problema di liquidità e quindi hanno, rispetto all’imprenditoria onesta, vantaggi consistentissimi: denaro a costo zero e non necessità di guadagnare subito per cui possono praticare condizioni di mercato che espellono o rendono la vita difficile alla concorrenza così da alterare il buon funzionamento delle regole di mercato e della concorrenza. E allora di mafia bisognerebbe continuare a parlare perché ne va della qualità della nostra vita, non soltanto sul piano dei diritti, della turbativa dell’ordine pubblico, ma anche sul piano della turbativa della nostra economia con conseguenze che dio solo sa quante e quali possono essere nel medio e lungo periodo.
È solo questo il motivo per cui non se ne parla?
Non se ne parla anche perché finché ti occupi di mafiosi di strada va tutto bene, ma quando cominci a occuparti di zona grigia, delle relazioni esterne non va più bene, vieni attaccato e quel che fai non solo non interessa molto, ma viene addirittura nascosto, quando non stravolto nella sua reale portata. E naturalmente chiunque mi conosce sa che l’esempio clamoroso a riguardo è il processo Andreotti dove si è parlato e si parla di assoluzione cosa che non sta né in cielo né in terra, perché in quella sentenza sono accertati – benché prescritti – i reati di mafia.
Gli ultimi processi dicono che le mafie non solo soltanto un problema del Sud. È così?
A Torino, a Milano, in Liguria i processi per infiltrazione mafiosa, in particolare ndraghetista ormai si moltiplicano. La presenza delle mafie, in particolare della ndrangheta, in queste aree è dimostrata ed è una presenza consolidata, articolata, diffusa, che ha potuto prosperare anche nella indifferenza, sottovalutazione di troppi soggetti responsabili a vario titolo, politico amministrativo istituzionale, informativo. Quello delle mafie è un problema complesso che vuole molte cure e molte medicine, molti interventi al capezzale. E invece di interventi , di solito, ce n’è uno soltanto: quello repressivo. Gli altri interventi di cui parlavamo ci sono, ma non con quella intensità, continuità, determinazione che sarebbe necessaria.
Adesso che il procuratore Caselli va in pensione continuerà a somministrare le altre cure?
Il 27 dicembre il procuratore Caselli non sarà più procuratore, non sarà più magistrato, sarà un pensionato. Però qualcosa gli piacerebbe continuare a fare. Per esempio ha avuto dalla coldiretti l’offerta di far parte dell’osservatorio sulle agromafie. Accetterò quest’offerta perché mi sembra una iniziativa interessante e utile ancora una volta per garantire la legalità nel settore agroalimentare che è un settore fondamentale per la qualità della vita di tutti noi.