Si tira il fiato, forse. Dalla
mezzanotte di sabato
27 febbraio il mio Paese,
la Siria, segue trepidante
l’evolversi della tregua
raggiunta a fatica con la
mediazione di Stati Uniti,
Russia e Onu. Il cessate
il fuoco esclude gli attacchi all’Isis,
a Jabhat al-Nusra, l’affiliata locale di
Al Qaida, e ad «altre organizzazioni
terroristiche designate dal Consiglio
di sicurezza delle Nazioni Unite». Per
contro, prevede la consegna di aiuti
umanitari a una popolazione stremata.
So che un C130 dell’Onu ha già
paracadutato 21 tonnellate di cibo e
medicinali a Deir az-Zor, una città da
due anni circondata dall’Isis e dove
vivono 200 mila civili.
Un’altra città martire è Aleppo,
la città in cui sono nato il 20 febbraio
1985, da cui sono uscito per studiare in
Italia (a Roma, Brescia, Torino) e dove
sono tornato mesi fa per esservi ordinato
prete e per rimanervi, con altri
due confratelli, fianco a fianco ai giovani,
sull’esempio di don Bosco.
La mia cara Aleppo, l’Aleppo in
cui si trova ancora la mia famiglia, è
oggi segnata da macerie e da tombe.
Bombe, missili, colpi di mortaio si
sono accaniti quotidianamente su
intere aree della metropoli. Fino
alla tregua, poi, Aleppo è stata una città
praticamente cinta d’assedio; la Sarajevo
del XXI secolo, l’hanno chiamata.
Eravamo collegati con il resto
del mondo da una sola strada.
Da lì, perlomeno, sono transitati
i viveri e le merci. Anche se quasi
mai in misura sufficiente a una città
di circa 2 milioni di abitanti. È infatti
scarseggiato a lungo, e continua a
scarseggiare, tutto ciò che serve a condurre
una vita normale: cibo, gasolio,
gas. L’elettricità manca da mesi. La
gente si arrangia pagando una sorta di
(pesante) tariffa settimanale per allacciarsi
a generatori di corrente privati
che consentono di accendere un paio
di lampadine e di vedere la televisione.
Questo è un problema soprattutto
per gli ospedali e gli ambulatori, le cui
sale operatorie e i cui reparti di rianimazione
sono stati costretti a inattività
forzata. Chi ha potuto è fuggito
in Giordania e Libano per farsi curare.
Lì, spesso, però, i prezzi sono schizzati
alle stelle: la “semplice” rimozione di
un’appendice inammata è costata
anche 1.500 dollari invece di 400.
L’erogazione dell’acqua è ricominciata.
Abbiamo scoperto a nostre
spese che si può fare a meno di tante
cose, ma non dell’acqua. Ogni giorno
vedevo uomini e donne, vecchi e bambini
riempire contenitori da 10 litri e
poi salire al secondo o al terzo piano.
Tutti abbiamo imparato a non sciupare
più l’acqua: per pulire i water riusavamo
l’acqua adoperata per lavarci o
per pulire piatti e stoviglie.
Gli scontri erano un po’ ovunque.
Si sparava a 700 metri da dove scrivo
ora. A gennaio sono stati uccisi 3 giovani
cristiani che frequentavano non
la nostra, ma altre chiese. Il lutto ci
ha portato a pensare di sospendere la
rappresentazione teatrale che avrebbe
dovuto andare in scena a fine mese,
per la festa di don Bosco, ma insieme ai
giovani abbiamo deciso di continuare
affidando allo spettacolo il compito di
ricordare tutti i ragazzi morti. Sul finire
di febbraio, poi, alla vigilia dell’entrata
in vigore della tregua, il direttore
della casa salesiana di Aleppo, don
Georges Fattal, è stato chiamato al
capezzale di persone mutilate dallo
scoppio di una bomba finita sulla loro
casa: chi aveva perso gli occhi, chi le
mani... Era pericoloso uscire per strada,
ma si poteva morire anche restando
a casa. In verità, non c’è famiglia,
qui ad Aleppo, che non pianga qualche
vittima di questa feroce guerra.
Ne ho parlato con il Papa, durante
l’udienza concessa il 17 settembre
2015 ai giovani consacrati.
Quando sono stato a tu per tu gli ho
detto: «Santo Padre, Le ho portato un
regalo, un bossolo, uno dei tantissimi
proiettili e delle tantissime schegge
che piovono ogni giorno dal cielo.
Questo è caduto nel cortile del nostro
oratorio, dove i ragazzi giocano. Santità,
noi salesiani siamo ad Aleppo, a
Damasco e a Kafroun, a 50 chilometri
da Homs... Lavoriamo come voleva
don Bosco... Ma ci sono anche altre
congregazioni religiose e i sacerdoti
diocesani... Santo Padre, siamo stanchi.
Si ricordi di noi nelle sue preghiere.
Io tornerò ad Aleppo». Mi ha preso
la mia mano e l’ha stretta forte.
Ricordo quei momenti vissuti a
Roma, nell’aula Paolo VI. Ripenso alla
mia ordinazione, l’11 luglio 2015,
ad Aleppo, in rito armeno cattolico,
alla presenza del vescovo monsignor
Boutros Marayati, e di tanti religiosi,
preti, suore e giovani accorsi per celebrare
insieme l’evento. Chiudo gli
occhi e rivedo l’apertura della Porta
Santa, il 13 dicembre, nella parrocchia
di San Francesco, colpita e danneggiata
un paio di mesi prima dal lancio di
granate. Vado inne con la mente alle
attività del nostro oratorio, mai interrotte
nonostante il conflitto (in
quest’anno pastorale risultano iscritti
al catechismo circa 700 tra bambini e
ragazzi, seguiti da 25 catechisti e da 60
animatori). Davvero il Signore della
vita vince il male.
La Siria vanta antichi fasti e conta
laceranti conflitti. Abitata ininterrottamente
da più di ottomila anni,
è una terra che ha visto l’uomo superare
geroglifici e caratteri cuneiformi,
imparando a comunicare con
il suo prossimo con alfabeti che hanno
poi generato la scrittura moderna.
Ma sempre qui tante, troppe volte nel
corso dei secoli, ci si è abbandonati a
una brutalità figlia della negazione
dell’altro, non ascoltato e non compreso.
Terra di ineguagliabili bellezze e di
lancinanti contraddizioni, la Siria, la
mia Siria, rimane in ogni caso una terra
cara a Dio tanto da definirsi santa.